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“È un problema dei gay!”

“È un problema degli africani!”

O peggio ancora: “perché farmi venire l’ansia per il test, nella peggiore delle ipotesi prenderò 1 pillola al giorno come per tante altre malattie. Non è un gran problema.”

Queste sono alcune delle risposte che ci vennero date all’Università di Bologna, quando aiutammo un gruppo di studentesse per una tesi che comprendeva una piccola survey.
Non ne sono particolarmente stupito per vari motivi.
In molti dicono che di HIV non se ne parla più, lo dicono soprattutto coloro che si occupano di informazione e, di conseguenza, di fare cultura sul tema. Ma c’è dell’altro: quando se ne parla in termini “seri”, si tende a normalizzare HIV e tutto ciò che gli gira intorno: i test, le terapie, ecc.

Ma è davvero così?

Una cosa è vera: di HIV non se ne parla molto e, grazie a questo, oggi ci troviamo a sguazzare in una situazione di ignoranza generale. In questo quadro la normalizzazione richiamata spesso dagli stessi specialisti, finisce per essere un danno. Ormai buona parte della popolazione non considera più HIV un problema o al massimo lo relega in ambiti particolari: il mondo omosessuale, chi è promiscuo, ecc.

In altre parole piano piano stiamo tornando alle idiozie che i bravi cattolici sostenevano negli anni ’80 quando addirittura il ministro della sanità dichiarava che l’infezione se la prende chi se la va a cercare. Del resto era in buona compagnia: la gerarchia cattolica non era da meno, fior di cardinali e perfino due papi si sono battuti affinché fosse l’etica cattolica a guidare la lotta contro questa epidemia mondiale, con buona pace delle informazioni scientifiche.
Del resto anche negli Stati Uniti, land of the free, ci fu chi propose al Congresso di chiamare G.R.I.D. (gay related immunodeficiency disease) quello che oggi, per fortuna, si chiama AIDS.

Torniamo al tema ma restiamo negli anni ’80. Keith Haring, uno dei padri della street art e della cultura pop, nel 1989 produsse un’opera diventata il manifesto della lotta contro HIV, dal titolo quanto mai attuale Ignorance = Fear / Silence = Death. La parte “Ignoranza = Paura” ci spiega come la mancanza di conoscenza su HIV fa sì che le persone abbiano paura di questa infezione e delle persone HIV positive, mentre la parte dell’immagine “Silenzio = Morte” rappresenta come la mancanza di consapevolezza e conoscenza porterà a più sofferenza e morte per le persone.
Chissà, forse è per questo che ancora oggi un milione e mezzo di persone ogni anno si contagiano. E non solo in Africa, come sosteneva quello studente ignorante, ma anche in Europa. In termini di contagi la situazione in Europa orientale e in Russia in particolare non ha niente da invidiare all’Africa Sub Sahariana.

Anche solo per il fatto che i contagi non calano nonostante gli indubbi passi in avanti della ricerca, avremmo dovuto capire che HIV non è affatto finito ed è ancora un problema. Ma è proprio grazie alla ricerca che sappiamo qualcosa di più.

Da un punto di vista patogenetico, è cosa nota che HIV cerca di distruggere il nostro sistema immunitario e ci rende attaccabili da patologie molto pericolose. Su questo punto la ricerca ha prodotto farmaci molto potenti che riducono ai minimi termini la replicazione virale bloccando ad HIV la strada verso l’AIDS.

Tuttavia l’azione del virus non è solo questa.

Infatti HIV non solo distrugge il sistema immunitario, ma lo attiva. La solo presenza di HIV, anche residuale, è in grado di attivare il nostro sistema immunitario e, come naturale conseguenza, si attiva anche un processo infiammatorio sistemico e cronico.
In effetti in un organismo sano il sistema immunitario si attiva solo quando necessario, mentre in chi ha HIV è sempre attivo.
Questa attivazione non fa bene al nostro corpo, è come avere un campanello d’allarme che squilla incessantemente in tutto l’organismo. Un campanello che provoca un lento logoramento degli organi, reni, ossa, cervello, ecc. e facilita la formazione di neoplasie. Non è un caso infatti che la popolazione con HIV abbia un’incidenza di problemi oncologici palesemente più alta della popolazione generale e tenda ad invecchiare più rapidamente rispetto ai pari età della popolazione generale. Nella mia esperienza ho potuto ascoltare le relazioni di diversi geriatri che affermano che i problemi che trovano nei loro pazienti nella decade degli 80 anni, come la sindrome geriatrica per esempio, li ritrovano in pazienti con HIV nella decade dei 60 anni, in qualche caso addirittura prima.

Quello che ci serve è una cura che eradichi HIV. Come qualunque paziente di qualunque patologia noi vogliamo guarire, senza se e senza ma.
Purtroppo i ma ci sono eccome perché la ricerca scientifica è ben lontana da questo obiettivo e, stante il fatto che non se ne parla, non sappiamo neppure se si stia occupando del tema.

Quello che sappiamo è che qui e ora non abbiamo né eradicazione né remissione, per tacere del vaccino i cui studi vengono fermati uno dopo l’altro per manifesta inefficacia.

A mio parere l’attivismo, le associazioni, dovrebbero tenete presenti questi temi, tenerli alti e favorire la discussione politica, scientifica e sociale.
In tutto questo fare il test, essere consapevoli del proprio stato di salute è ancora molto importante. Una diagnosi precoce e il conseguente inizio precoce del trattamento è decisamente meglio che arrivare alla diagnosi di HIV quando si è ormai in AIDS o prossimi a diventarlo e quando HIV ha riempito i serbatoi di virus latente.

Il test per HIV è ancora necessario. Fate il test, alla peggio mangiate un ansiolitico, ma fate il test. Fatelo al BLQ Checkpoint, in ospedale, dove volete ma fatelo. Almeno una volta all’anno o con la frequenza adatta alla vostra vita sessuale.

Sandro Mattioli
Plus aps

Per la serie a volte ritornano ecco rispuntare la frase categorie a rischio, questa volta addirittura nel programma di una conferenza sulla salute organizzata da Motore Sanità e, per giunta nella parte su HIV ed epatiti virali dove chi scrive è stato chiamato a parlare. È vero che la conferenza prende le mosse da quello che chiama “pensiero creativo”, ma un limite alla mancanza di conoscenza.
Chiunque si sia minimamente interessato ad HIV e ha messo il naso fuori dai reparti di malattie infettive, dove verrebbe da credere quella frase non ha mai perso di efficacia, dovrebbe cogliere al volo il peso di quella frase.

Chiariamo subito: nessuno studio, scientifico, sociale, psicologico o terrapiattista ha mai dimostrato che HIV ha una volontà politica di colpire questa o quella parte di popolazione.
Semmai sono comportamenti a rischio di contagio. Ma in questo triste e ignorante Paese è chiaramente più comodo dare la colpa dell’infezione a fette di popolazione. Si identifica un “nemico” e ci si mette il cuore in pace.

Così per anni si è creduto che HIV fosse la malattia dei gay, al punto che qualcuno propose di chiare GRID (gay related immunodeficiency disease) quello che poi si sarebbe chiamato AIDS. Poi, guarda un po’, HIV inizio a colpire anche gli injection drug user (IDU), poi tutti e ancora oggi – come è sempre stato del resto – è una patologia che può colpire chiunque sia sessualmente attivo. Ma la paura o l’ignoranza, scegliete voi, è più forte della scienza – soprattutto se anche clinici e ricercatori usano “categorie a rischio” – e quindi ancora oggi, dopo oltre 40 anni di epidemia globale, per buona parte della popolazione italiana HIV è la patologia dei gay, degli africani, dei drogati e la discriminazione prosegue con grande soddisfazione di HIV che può contare su un vasto bacino di diagnosi tardive

In effetti chi non è né gay, né IDU, né africano perché mai dovrebbe farsi un test. Ecco come HIV prosegue la sua corsa in Italia, grazie al pressappochismo di chi dovrebbe prestare attenzione a cosa scrive, e all’ignoranza generalizzata di un Paese dove tutti dicono che di HIV non se ne parla più. Tutti, a partire dai giornalisti che dovrebbero informare al popolazione ma scrivono titoli da inquisizione spagnola o mettono in piazza lo stato sierologico di chiunque, con buona pace delle leggi vigenti a partire dalla 135/90.

Leggere di categorie a rischio nel programma di una conferenza scientifica equivale a mandare indietro la cultura sociale dell’Italia su HIV di decenni e pure a pedate, perché avvalora una sciocchezza ascientifica agli occhi di chi non conosce la materia o è troppo superiore per occuparsi di questioni semantiche (come mi è stato già scritto). In un attimo tutto quello che è stato fatto da grandi attivisti, dai principi di Denver a U=U, viene spazzato via.

Vi do per certo che in molti cercheranno di minimizzare, sta già succedendo. Qualcuno mi ha detto che non è il caso di farne una questione di stato, altri al telefono mi hanno detto “io sono una categoria a rischio”, altri, peggio ancora, hanno cercato di avvalorare la frase dicendomi che, in fin dei conti, è la versione italiana di key population, ossia popolazioni chiave che sono quei gruppi sociali che l’epidemiologia ci indica come più esposti al rischio di contagio perché al loro interno i comportamenti a rischio tendono ad essere più frequenti, spesso proprio a causa della marginalizzazione a cui sono soggetti. È una definizione universalmente accettata se non ché nel resto del mondo a nessuno verrebbe in mente di generalizzare o dire che l’intera popolazione “X” ha l’HIV. Inoltre nel resto del mondo si attivano politiche di prevenzione rivolte a quelle popolazioni per modificare o limitare i comportamenti a rischio. In Italia invece vengono additate e marginalizzate. Del resto negli ultimi 40 anni io non ho mai visto in Italia una campagna di prevenzione rivolta a gay o a sex worker, campagne che altri Paesi anche meno ricchi di noi fanno da anni. Da noi al massimo abbiamo messo un alone viole intorno a qualcuno e, per anni, abbiamo preteso di difendere gli italiani con l’etica cattolica invece che col condom.

Ecco cosa si nasconde dietro la frase categorie a rischio. C’è un Paese che, per quanto sia ai primi posti nella clinica, deve ancora fare molta strada sul piano sociale.
Una strada che periodicamente va riasfaltata perché qualche sciagurato si diverte a farci dei buchi.
Per HIV non esistono né cura né vaccino ed è un’infezione a trasmissione sessuale. Quindi deve essere combattuto sul piano scientifico e su quello sociale, altrimenti fra altri 40 anni saremo ancora qui a chiederci se sia la malattia dei gay.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Anche se la protezione indotta dal vaccino può scemare dopo 36 mesi, il vaccino MenB-4C rimane moderatamente efficace contro la gonorrea.

Il vaccino MenB-4C, un vaccino meningococcico sierogruppo B a membrana vescicale esterna, è moderatamente efficace contro la gonorrea in varie popolazioni, secondo i risultati dello studio pubblicati su The Journal of Infectious Diseases.

I ricercatori hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi per sintetizzare la letteratura pubblicata sull’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea. Sono stati ricercati nei database manoscritti sottoposti a revisione paritaria pubblicati in inglese tra gennaio 2013 e luglio 2024 che valutassero l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea e la coinfezione gonorrea/clamidia, nonché la durata della protezione indotta dal vaccino. È stato utilizzato un modello a effetti casuali DerSimonian-Laird per stimare l’efficacia del vaccino combinato contro la gonorrea. Sono stati inclusi nell’analisi 8 articoli in totale, 4 dei quali sono stati condotti negli Stati Uniti, 2 dei quali sono stati condotti in Australia, 1 dei quali è stato condotto in Italia e 1 dei quali è stato condotto in Francia. Le fonti dei dati includevano registri di sorveglianza delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) collegate e registri di sistema informativo di immunizzazione, cartelle cliniche elettroniche e uno studio clinico randomizzato. L’unità di analisi dell’efficacia del vaccino era a livello di persona e di infezione in 5 e 3 studi, rispettivamente.

Le stime dell’efficacia del vaccino contro la gonorrea tra adolescenti e giovani adulti di età compresa tra 15 e 30 anni variavano dal 23% al 47% in 7 studi osservazionali. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci dal 32% al 33% contro la gonorrea negli adolescenti e nei giovani adulti di età compresa tra 15 e 25 anni. In uno studio su uomini adulti che hanno rapporti sessuali con uomini affetti da HIV e in cura per l’HIV, 2 dosi di vaccino erano efficaci al 44% contro la gonorrea. In un altro studio, 2 dosi contro nessuna dose di vaccino erano efficaci al 40% contro la gonorrea, mentre 1 dose contro nessuna dose di vaccino era efficace al 26%.

Sulla base di 9 stime da 8 studi, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino era del 32,4% (95% CI, 26,2-38,7). Non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.

In un’analisi di sensibilità di 7 studi osservazionali, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino è stata del 33,5% (95% CI, 26,9-40,1). Allo stesso modo, non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.

Un totale di 4 studi ha valutato l’efficacia del vaccino MenB-4C contro le monoinfezioni gonococciche. Due dosi di vaccino sono state efficaci al 31,6% e al 28,3% contro la monoinfezione secondo 2 studi. Un altro studio ha dimostrato che 2 dosi e 1 dose sono state efficaci rispettivamente al 40% e al 26% contro la monoinfezione. Il quarto studio ha rilevato che almeno 1 dose di vaccino è stata efficace al 23% contro le monoinfezioni.

L’efficacia del vaccino MenB-4C contro la coinfezione da gonorrea/clamidia è stata presa in considerazione in 4 studi. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci al 32,7% e al 44,7% contro la coinfezione. Altri 2 studi hanno indicato che il vaccino non era efficace contro la coinfezione.

Le limitazioni dello studio includono l’esclusione di articoli non pubblicati in inglese, piccole dimensioni del campione, risultati poco generalizzabili e potenziali bias di segnalazione e classificazione errata.

Secondo 1 studio che ha valutato la durata della protezione di 2 dosi di vaccino contro la gonorrea, l’efficacia contro la gonorrea entro 6-36 mesi dalla vaccinazione rispetto a oltre 36 mesi dalla vaccinazione era significativamente più alta (rispettivamente 34,9% contro 23,2%). Altri due studi con periodi di follow-up mediani di 37 mesi e 45 mesi hanno dimostrato un’efficacia di 2 dosi rispettivamente del 40% e del 44%.

Secondo i ricercatori “Sono urgentemente necessari dati provenienti da studi clinici in corso che stanno valutando l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea (genitale ed extragenitale) e la coinfezione gonorrea/clamidia e che stanno studiando un correlato di protezione immunitaria”.

articolo tradotto da EATG 1/9/2024

Per la prima volta nella sua storia ormai decennale, il BLQ Checkpoint chiede un contributo economico alla comunità.

E la comunità sta rispondendo bene.

Chi lo desidera contribuire, può farlo donando via:

  • Paypal
  • Eppela
  • oppure via bonifico: Codice Iban: IT57B0623002402000057898117 Crédit Agricole, via Marconi 16 Bologna – Plus aps – causale: erogazione liberale ambulatorio

Questi sono i motivi per cui stiamo coinvolgendo la comunità e tutti gli amici del BLQ Checkpoint.

È difficile riassumere il lungo lavoro che ha portato all’apertura a Bologna del primo Checkpoint italiano nel 2015. Un lavoro di advocacy di quasi 9 anni!
Nove anni spesi a cercare di far capire alle autorità regionali cosa fosse un centro di comunità, quali fossero le potenzialità di un approccio community based nella lotta contro HIV e le altre infezioni a trasmissione sessuale.
Ci siamo infine riusciti con grande fatica… ma forse no in realtà, se è vero che ancora oggi in Regione di fatto non sanno cosa facciamo, nonostante i report che ogni anno sono stati scritti a dimostrazione del lavoro svolto con i 35.000€ che la Regione eroga per il servizio.

9 anni di advocacy preparatoria e 10 anni di attività sempre precaria perché l’accordo con USL Bologna si rinnova di anno in anno, rendendo di fatto impossibile qualunque programmazione che coinvolga l’Azienda Sanitaria.

Nonostante i problemi e lo scarso interesse dell’autorità sanitaria, siamo andati avanti cercando fondi nel privato (che, al contrario, conosce bene il valore dei Checkpoint ben presenti in buona parte dell’Europa comunitaria) grazie ai quali siamo riusciti aprire nel 2018 un servizio PrEP rivolto a persone ad alto rischio di contagio per HIV.

Grazie al PrEP Point abbiamo messo in PrEP 320 persone, di cui abbiamo quasi 170 seguiti direttamente da noi.
Il servizio ha aperto nel 2018 non appena AIFA ha autorizzato il farmaco per la PrEP (Emtricitabina/Tenofovir DF), cosa resa possibile grazie al nostro lavoro preparatorio iniziato nei primi mesi del 2013, subito dopo l’approvazione del farmaco da parte della statunitense FDA.

Grande fatica, ma anche grandi soddisfazioni da parte degli utenti che hanno risposto in tanti, così come per la collaborazione del S. Orsola dott. Badia in primis e tutti i colleghi che ci danno una mano in forma volontaria, come, del resto, è volontario anche il personale infermieristico che ci aiuta con la raccolta dei campioni.

Sembrava che tutto funzionasse e che, per una volta, venisse data importanza alla salute dei cittadini. Nel maggio 2023, AIFA decide di concedere il rimborso della PrEP che passa a carico del SSN, quindi gratis per gli utenti, su prescrizione del medico infettivologo. Con una circolare la nostra Regione specificherà che l’infettivologo potrà prescrivere solo in orario di lavoro, solo nel suo ambulatorio malattie infettive o ambulatorio PrEP, ponendo di fatto il PrEP Point e i suoi utenti in una situazione quanto mai precaria dovuta al fatto che, a causa della circolare, i medici del S. Orsola che vengono da noi non avrebbero più potuto prescrivere la PrEP. Si prospettava un percorso assurdo che avrebbe costretto gli utenti a fare i test da noi, per poi passare in ospedale per la visita e la prescrizione, indi in farmacia ospedaliera per ritirare il farmaco, rendendo il tutto molto farraginoso.

Ovviamente Plus non ha lasciato correre perché c’era in gioco la sieronegatività di utenti ad alto rischio che l’ambulatorio PrEP del S. Orsola, come ci ha spiegato il direttore prof. Viale, non è in grado di assorbire oggi per domani tutti i nostri utenti.

Abbiamo quindi posto il problema all’Assessore Regionale Donini che ha dato disposizioni per risolverlo e la soluzione trovata – senza mai invitare Plus alle riunioni – è stata quella di realizzare un ambulatorio medico all’interno della sede del BLQ Checkpoint.

Sembra una cosa semplice ma non lo è affatto. Ci sono moltissime regole tecniche a cui ottemperare: metri quadri, luce e cubatura aria, lavabilità di muri e pavimenti, ecc., che, verosimilmente, fanno aumentare i costi. Per tacere della nomina di un direttore sanitario che non ci possiamo permettere. Solo per la ristrutturazione, siamo già a circa 20/25.000€ una spesa che, al momento, nessuno si è offerto di sostenere, incluso il Comune di Bologna che è il padrone di casa. L’Assessore Regionale si è detto disponibile a parlarne ma siamo in periodo pre-elettorale e non è chiaro come sia possibile muoversi.

Verosimilmente Plus dovrà cercare i soldi necessari altrove, e abbiamo iniziato con voi.

Un abbraccio.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Sappiamo che la PrEP è efficace se assunta correttamente. Può capire però di dimenticare di assumerla e avere un rapporto a rischio HIV.

Le nuove linee guida OMS spiegano dettagliatamente quando richiedere la PEP se si è in PrEP. La PEP è un farmaco d’emergenza che si assume solo dopo un rapporto a rischio. Va presa il prima possibile e non oltre le 48 ore dal rapporto a rischio. Prima si prende la PEP e maggiori sono le possibilità di successo. Si richiede in un ospedale che abbia un reparto di malattie infettive.

Quando chiedere la PEP se abbiamo dimenticato la PrEP

Persone assegnate maschio alla nascita che non assumono estradiolo

chiediamo la PEP se abbiamo preso meno di 4 compresse nei sette giorni prima del rapporto a rischio

Tutte le altre persone

chiediamo la PEP se abbiamo preso meno di 6 compresse nei sette giorni prima del rapporto a rischio

Lo schema riguarda solo la PrEP giornaliera. Se assumi la PrEP on demand, chiedi la PEP se il secondo e/o il terzo giorno hai dimenticato di prendere la PrEP.

Dal qualche settimana stiamo assistendo alla presa di posizione dell’ordine dei biologi contro la possibilità di effettuare alcuni test di screening nelle farmacie. In pratica gli stessi test che fa il BLQ Checkpoint e tutti i centri community based italiani, così come tutti i Checkpoint in UE e da molti anni prima di noi.

In generale gli interventi che ho ascoltato sono spudoratamente corporativi e sostanzialmente ignoranti, ovviamente nel senso buono del termine. Nessuno nega che i test ufficiali effettuati nei laboratori di microbiologia siano i più attendibili sul mercato, ma il punto è che – per fare una battuta – non hanno mercato, ossia mediamente le persone fanno fatica ad andare in ospedale, farsi prevelare un campione che poi verrà inviato al laboratorio. Fanno fatica sia per gli orari assurdi degli ambulatori che costringono chi lavora a prendere fior di permessi che, in un mondo del lavoro precarizzato, raramente sono fattibili, sia perché in ospedale ci si entra quando si è malati non per fare prevenzione che, in effetti, dovrebbe essere fatta in altri luoghi. Quindi perché non la farmacia?

I vari tipi di test di screening hanno sicuramente dei limiti che vanno spiegati agli utenti. In genere le spiegazioni vengono comprese dalle persone e sono tali persone che devono essere messe nelle condizioni di scegliere se correre un rischio oppure no. Deve essere chiarito il periodo finestra, si deve tenere conto del periodo di incubazione del patogeno, temi che, del resto, riguardano anche i test di laboratorio… o si crede che in laboratorio un test per sifilide fatto a 2 giorni dal possibile contatto sia attendibile?

Si parla tanto di diffondere i test rapidi in modo da limitare le diagnosi tardive, ancora molto presenti in HIV per esempio, un campo dove l’Italia è fra le peggiori nazioni d’Europa.

Pur tenendo conto dei limiti dei test di screening che, del resto, sono test per i point of care non per gli ospedali, l’aiuto delle farmacie sarebbe perfetto.

Le farmacie sono disseminate lungo l’Italia in modo capillare in una logica di prossimità che potrebbe essere di grande aiuto e, soprattutto, sono tante: il nostro Paese vanta 100.000 farmacie. Se anche solo il 50% di esse accettasse questo nuovo ruolo, potremmo ottenere un incredibile incremento della possibilità di testing nel nostro Paese.

Invece no! Levata di scudi dei biologi tesa a mantenere in casa questo piccolo potere. Non che sia una novità, lo abbiamo visto anche su altri temi come quello della PrEP che potrebbe benissimo essere prescritta da un medico formato e invece chi vuole accedere a questa prevenzione deve ottenere una visita dallo specialista in infettivologia. Chissà come mai.

Con questa logica protezionista da bottega, chi ci andrà a guadagnare sono i batteri e i virus che proseguiranno per la loro strada, già li vedo applaudire e ringraziare per l’aiuto a mantenere lo status quo.

Sandro Mattioli
Plus aps