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La mamma di Enrico ha scritto questo testo che pubblichiamo volentieri su richiesta di suo figlio, con la speranza che aiuti anche altri nel coming out sierologico in famiglia.

Enrico mi ha chiesto di testimoniare come ho vissuto la “cosa” dentro di me.
La “cosa” è sapere che mio figlio ha contratto l’HIV.

Ero tornata dal mare e sapevo che avrebbe fatto il test. L’ho raggiunto nella sua camera e me l’ha detto nascondendosi il volto. Ma questo riguarda lui. Io devo parlare di me.

Come molti studiosi dicono, le emozioni si distinguono in fondamentali e complesse. Le emozioni più frequentemente classificate come fondamentali sono gioia, rabbia, ansia, tristezza e paura.

La rabbia è la reazione alla frustrazione.

L’ansia si manifesta con la preoccupazione che qualcosa di negativo accadrà.

La tristezza si manifesta a causa della perdita di qualcuno o qualcosa.

La paura è la risposta ad un pericolo.

La mia prima emozione è stata la paura. Paura di perdere mio figlio. La paura di vederlo soffrire. La paura di vederlo isolato. La paura che non potesse avere relazioni con altre persone.
A un tratto mi sono passati davanti agli occhi le immagini degli anni ‘80, il film “Philadelphia”, Freddy Mercury e tanti altri personaggi famosi e/o persone che conoscevo. Ho pensato “Dio mio, mio figlio no”.

Mio figlio poi mi ha spiegato che esistono terapie efficaci e che si era già rivolto a un centro specializzato. Il contrario della paura è il coraggio. E mio figlio mi ha dato prova di averne tanto. E mi sono sentita orgogliosa di lui. E allora mi sono riecheggiate le parole di Battiato “E guarirai da tutte le malattie. Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te” e ho pensato che come madre, potevo solo stare al suo fianco e mettere da parte la mia paura per lasciare invece emergere le sue emozioni, per trasmettergli quel “hey, sono qui con te. Affronteremo insieme anche questo!”.

L’ho abbracciato, lui piangeva, e continuava a dire “mi sento in colpa”. Il “senso di colpa” è un’emozione secondaria (come l’invidia, la vergogna) che, secondo sempre gli studiosi, dipende dallo stile culturale di appartenenza o da un eccessivo senso di responsabilità.
E ho pensato che ancora una volta non avevo capito nulla. Non avevo capito che il rischio di contrarre l’HIV è reale e che può colpire tutti indipendentemente dallo stile di vita, dall’orientamento sessuale ecc. e ho riflettuto sul tipo di educazione che gli avevo dato e soprattutto al “modello” educativo permeato sempre dal mio (mio!) finto mito della “normalità”. E ho anche capito che non potevo lasciargli la responsabilità di preoccuparsi che io non fossi preoccupata perché era lui al “centro” della questione, era lui a dover ricevere prima la “cura” (il significato della parola cura è Interessamento attento e sollecito; riguardo, attenzione) ancor prima della giusta “terapia”.

L’ho tenuto stretto stretto e gli ho detto che non capivo il perché si sentisse in colpa visto che l’aveva contratto sicuramente facendo l’amore e anche qualora non fosse stato “amore” poco importava perché non aveva fatto del male a nessuno. Cercare il piacere non è sbagliato. Imprevidente? Forse. Aveva aspettato troppo a farsi gli esami? Forse. Ma sono onesta, al suo posto avrei fatto lo stesso. Io faccio fatica ad andare dal dentista per la paura che mi dica che ho un dente cariato.

Ora quello che potevamo fare era di affrontare tutto, un passo alla volta e insieme.

Il giorno dopo ricordo di essermi alzata e di aver ripensato al tutto con un’altra emozione: la sorpresa.
Sorpresa che si fosse realizzato ciò che tanti anni fa avevo temuto. Enrico è nato nel 1986. Alla nascita gli fecero 3 trasfusioni di sangue e come molti sanno in quegli anni il sangue non era “controllato”. Dopo alcuni anni ebbe i primi problemi ai bronchi e nonostante le molteplici visite non trovavano le cause e quindi gli fecero anche il test dell’HIV. Risultò negativo.

Ricordo di averlo abbracciato quando si è alzato e di aver pensato che la paura di allora era identica a quella di oggi e che anche se ora era un giovane uomo e non un bambino (emblema dell’”innocenza”) quella stessa paura era del tutto fisiologica e assolutamente priva di giudizio.

Io e mio figlio ridiamo spesso sulle disgrazie, abbiamo questo umorismo strano per superarle…e quindi, e concludo, ridemmo della battuta che feci a mia nonna. Mia nonna sempre a fine anni ’80 (aveva poco più di 70 anni) subì un’operazione molto invasiva all’intestino e dunque fu trasfusa diverse volte. Aveva il terrore di contrarre l’HIV e io e mia sorella ridendo le dicemmo “nonna, se viene fuori che hai l’HIV di’ che l’hai contratto con un rapporto a rischio …farai invidia!”.

Dopo oltre 40 anni di HIV, con tutti i cambiamenti sociali che l’epidemia ha portato con sé, ha ancora senso parlare di fierezza o di orgoglio positivo – ovviamente mi riferisco a HIV – e ha ancora senso portare ai Pride questo tema? Dopo tutto ormai HIV non fa così paura, prendiamo una pillola e via, che sarà mai?
Lo stigma, la discriminazione e il pregiudizio la fanno ancora da padroni in questo Paese? E la comunità LGBTQ+ è così immune dal discriminare le persone che vivono con HIV che queste possono restare nascoste ed evitare di palesare il proprio stato sierologico?
Il movimento LGBTQ+ sta svolgendo finalmente un’opera di primo piano su questi temi? O resta timoroso sulla porta delegando ad altri un ruolo che in altri Paesi è stato governato principalmente da persone omosessuali?

Fuori dal corteo del Pride, ha senso parlare del proprio stato sierologico ad altri e “uscire dall’armadio, come facciamo con l’orientamento sessuale?

Di questo e di molto altro parleremo al VENERDi’ POSITIVO del 30 marzo dalle ore 19,30 presso la sede di Plus in via S. Carlo 42/C a Bologna.

Dopo la chiacchierata, per chi lo desidera, è prevista una pizzata tutti insieme.

A venerdì.