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Per capire meglio verso quale direzione muoverci come associazione, è sempre buona cosa ascoltare la voce delle persone interessate, in questo caso le persone che vivono con HIV e che attualmente sono in terapia con i farmaci Long Acting iniettivi.

Abbiamo realizzato un questionario breve e anonimo, ci date una mano con il vostro parere?

Ecco il link: https://bit.ly/longacting

Se riusciamo a raccogliere un po’ di pareri, sarà più facile indirizzare le politiche dell’associazione e ottenere risultati migliori.

Grazie.

Sandro Mattioli
Plus aps

La plenaria della terza giornata della conferenza, si apre con una relazione sulle comorbidità correlate a HIV… ma allora non esiste solo l’aids e le aids correlate!

La dott.ssa Susanne Dam Nielsen dell’ospedale universitario di Copenaghen Rigshospitalet, parte in quarta dichiarando le determinanti sociali che correlano direttamente con l’aspettativa di vita delle persone HIV+
:…. Vi lascio il tempo di andare a prendere talismani vari e fare gesti apotropaici… fatto?

  • il genere
  • l’etnia
  • la situazione sociale ed economica
  • il fumo, l’alcool, l’uso di sostanze illecite
  • la salute mentale

Posto che all’età di 40 anni la popolazione generale vanta un’aspettativa di vita di 40,7 anni ulteriori e che noi MSM e gli etero siamo subito sotto ma di poco (ma comunque sotto), vediamo quali sono gli eventi che abbassano l’aspettativa di vita.

Al primo posto le patologie cardiovascolari (CVD). Rispetto alla popolazione generale, le persone con HIV hanno il doppio del rischio di ischemia CVD (Infarto del miocardio e stroke inclusi), che sale a tre volte in caso di ostruzione di arterie. Le CVD causate da HIV sono triplicate negli ultimi 20 anni. Bene l’infarto del miocardio colpisce di più le donne con HIV.
Ma non è tutto: l’arresto cardiaco, più comune nei giovani con HIV; la SCD (sudden cardiac death) è una delle maggiori cause di morte nella popolazione con HIV: 1/3 dovuta a uso di sostanze.

E poi c’è il fumo che è decisamente prevalente nelle persone con HIV che nella popolazione generale.

Il fumo sembra far gruppo insieme ad altre determinanti sociali della salute come l’alcool, assumere sostanze per via iniettiva (IDU), salute mentale, fattori socio-economici ossia avere i soldi per occuparsi di tutte quelle cose.

La ricercatrice chiude scrivendo in grassetto che il fumo è la barriera che impedisce alle persone con HIV di raggiungere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e che se tutti i sieropositivi smettessero di fumare, ci potrebbe essere il 42% di infarti in meno.

Ma il peggio arriva per chi usa sostanze per via iniettiva (IDU) perché è alto il rischio di una aderenza e, quindi, di una soppressione virale subottimale. Gli IDU con HIV hanno un’aspettativa di vita molto più bassa della popolazione generale e delle altre persone con HIV.

Quindi, in conclusione:

  • le persone con HIV hanno un’aspettativa di vita minore che compensiamo con un maggiore rischio cardiovascolare (CVD). Aggiungere il CVD nei controlli periodici che fanno persone con HIV potrebbe essere vitale;
  • la presenza di replicazione virale e un basso nr di CD4, sono un elemento di rischio cardiovascolare;

Bene ora passiamo ai polmoni delle persone con HIV. La broncopneumopatia cronica ostruttiva (COPD) è un’affezione respiratoria con colpisce il 30% delle persone con HIV, un rischio più alto di quello della popolazione generale e, anche su questa co-patologia, fumare peggiora la situazione unitamente all’avanzare dell’età. Di nuovo la replicazione virale, un basso nr di CD4 ma anche una pregressa TB o pneumocisti incrementano il rischio. La funzionalità polmonare in genere peggiora con l’avanzare dell’età, ma con l’HIV peggiora più rapidamente di circa 8-10 mL/anno… peggio per chi fuma… peggio se sei afro-americano… peggio se vivi in Africa. Come sempre devi avere il culo di nascere nel “Paese giusto” e non solo. Quindi in conclusione: HIV è in sé un fattore di rischio per la COPD.

In una successiva sessione è stato affrontato il tema dei long acting, ossia dei farmaci a lunga durata contro HIV. Parliamo soprattutto di cabotegravir+ rilpivirina long acting (CAB+RPV LA) la cui efficacia è stata dimostrata ormai da diversi studi. In alcuni studi è emerso un rischio parziale di fallimento terapeutico e di insorgenza di resistenze. Parliamo di pochissimi casi che, tuttavia, vanno monitorati. Sono stati mostrati studi che hanno dimostrato la soddisfazione dei pazienti che hanno preso in considerazione il minor uso di pillole, l’ansia per l’aderenza alla terapia, la paura di essere visti durante l’assunzione quotidiana delle pillole o anche la scatola delle pillole in casa, nonché il fatto che l’assunzione giornaliera delle pillole comporta un continuo ricordarsi di avere HIV; sono uscite le linee guida sia di EACS che di IAS per questi farmaci che, sul piano clinico, possono essere proposti ad adulti in soppressione virologica, senza pregressi fallimenti virologici con gli inibitori della trascrittasi inversa e dell’integrasi, ecc. in molti centri clinici italiani devi essere puntualissimo agli appuntamenti e non ti devi azzardare a chiedere di spostarli perché sudano ad affrontare questo genere di problemi logistici ed è più comodo tornare alle pillole al primo accenno di problema… In tutte le conferenze, e anche EACS non fa differenza, i ricercatori insistono nel dire che i farmaci LA sono perfetti per chi ha problemi di aderenza ma, evidentemente, costoro non hanno tenuto conto di altri fattori.

Oltre alla terapia anti retrovirale long acting, ci sarebbe anche la raccomandazione di OMS per l’uso di CAB come prevenzione da HIV e come parte di un programma completo di prevenzione. Infatti, anche se l’attuale PrEP con Tenofovir/Emtricitabina è utilizzabile da tutti, non ha dimostrato la stessa efficacia per tutti per esempio nelle donne.

La PrEP con CAB LA potrebbe andare a coprire altri gruppi sociali vulnerabili. Potrebbe essere una sfida interessante alla quale i Checkpoint italiani potrebbero dare un contributo ora che ci siamo un po’ sviluppati e che sono presenti anche in altre aree del Paese non solo a Bologna e a Milano. EMA ne ha approvato la commercializzazione un mese fa, ma la Francia è già partita con uno studio locale. Non capirò mai perché l’Italia arriva sempre tardi agli appuntamenti con la prevenzione.

Suggerisco di riprendere in mano il cornino rosso perché stanno per riprendere le sfighe.

Una sessione interessante ci ha aggiornato sul tema delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST). Parte con la prospettiva globale che vede 128 milioni di casi di clamidia, 82 di gonorrea, 7 di sifilide, sono dati del 2020. Si aggiungano stigma, impotenza, problemi di gravidanza, cancro, la diffusione delle resistenze ai farmaci, il rischio di HIV. L’Europa del resto, con i suoi 12 milioni di casi di clamidia non si fa ridere dietro. La ricercatrice ha insistito molto sulla mancanza di un modello statistico comune europeo, ma anche sul fatto che per HPV, le epatiti A e B la copertura vaccinale in Europa è del tutto insufficiente.

Chiudo rapidamente con alcuni dati relativi alla sessione sull’invecchiamento delle persone con HIV e dei problemi anticipati che questo comporta.
La prevalenza di fragilità cognitiva nelle persone con HIV di più di 50 anni è più alta di quella della popolazione generale di età maggiore di 65 anni.
Il numero di anni vissuti con HIV è associato a una maggiore fragilità cognitiva, il che porta a pensare che HIV in sé sia un fattore di rischio per lo sviluppo di queste condizioni, con ogni probabilità a causa dell’infiammazione provocata dalla presenza di HIV nel corpo.

Anche nella conferenza EACS, come in tutte le principali conferenze, questi temi vengo affrontati con sempre maggior frequenza. Mi chiedo quando accadrà anche nei reparti di malattie infettive.

Sandro Mattioli
Plus aps

È domenica e giustamente in plenaria ci presentano studi su studi alla ricerca di vaccini o cure.
Con il titolo: Approaches for HIV cure and vaccine research ben due ricercatori hanno cercato di farmi capire a che punto siamo con le ricerche sia per il vaccino sia per la cura, tema molto complesso o almeno lo è per un paziente come me. In realtà gli studi per cura e vaccino sono interconnessi sotto molti aspetti e hanno sicuramente un aspetto fondamentale in comune: siamo lontani dal successo. A seconda delle aree di ricerca, siamo ancora nell’ambito di studi sugli animali, di ricerca di strategie, di target da colpire, maybe o could be sono le parole più spesso usate. Quindi mettiamoci il cuore in pace, la strada è ancora lunga.
Detto questo la ricerca sta proseguendo su una area di azione che è stata illustrata, in particolare, da Thomas Rasmussen, Aarhus University Hospital in Danimarca.

Il ricercatore ha fatto una vasta disamina delle nostre speranze attuali, ossia sui vari strumenti che la ricerca sta valutando, studiando e sperimentando: dagli anticorpi neutralizzanti (bNAb), ai recettori antagonisti, dai vaccini terapeutici agli immunomodulatori alle citochine e così via.

Certamente ci sono speranze, l’area di ricerca è molto ampia, complessa e – presumo – costosa se devo dare retta alla bacchettata di Rasmussen alla UE accusata di investire molto meno degli USA in ricerca. Ma è altrettanto vero che dopo 40 anni di ricerca siamo ancora lontani da un risultato che possa guarire qualcuno.
Gli studi su immunoterapie su modelli animali sembrano promettenti e si spera bene per gli studi sugli umani;
l’uso di bNAb all’inizio della terapia antiretrovirale può incrementare l’attività delle cellule T e forse portare a controllare l’infezione senza terapia;
si ipotizza che la immunoterapia possa colpire i reservoir all’inizio del trattamento antiretrovirale (o durante), cosa che potrebbe modificare il corso dell’infezione da HIV e così via.

È poco probabile che si arrivi in tempi brevi a qualcosa che porti alla completa eradicazione di HIV dai nostri corpi, ma tutte queste aree di analisi e ricerca sono parte di un quadro molto ampio ossia sono alcuni degli approcci possibili e testabili per giungere a una cura contro HIV. Come dire se questo non funziona proviamo quello, scusate l’estrema sintesi, resta il fatto che sono passati 40 anni e ancora siamo ai tentativi. Ammetto che sono un po’ infastidito e condivido in pieno il parere del dott. Rasmussen: gli enti pubblici, UE in particolare, devono investire più fondi in ricerca. Forse vale la pena ricordare che i morti per cause aids correlate sfiorano il milione.

Nel pomeriggio devo ammettere che ho saltato qualche sessione perché, grazie soprattutto a Salvio che è qui con me, ho saputo che il Canada, o quantomeno il Quebec, offre il vaccino contro il vaiolo a chiunque lo chieda purché esposto al rischio. Anche se a 5 anni credo di essere stato vaccinato contro il vaiolo, considerando che è passato più di mezzo secolo, ho pensato di farlo.

Quindi sono andato in uno dei quattro centri vaccinali, il più vicino. Una signora mi ha chiesto se ero a rischio e mi ha messo sotto al naso un elenco di gruppi esposti… io sono dentro a 2/3 dei gruppi. La signora ha sorriso e mi porta a un tablet dove inizia a mettere dentro i miei dati. “Lei ha più di 18 anni direi” – mi dice – “Esatto, 18 e sei mesi” confermo. Credo che sia ancora la che ride. Con il tablet mi prende un appuntamento “fake” per le 19,15 (sono andato alle 12,15), poi passa a un’altra signora che sbriga la parte amministrativa, stampa un foglio e una etichetta, fa un cenno a un ragazzino nero coi capelli gialli che mi accompagna al punto vaccinale nr. 1, che poi è una delle scrivanie in un ampio open space, pieno di scrivanie dove siedono infermieri (toh? Non medici a vaccinare). Il mio nurse ha due braccia grosse come le mie cosce, mi fa le domande di rito (segni del contagio, contatto con un contagiato, allergie, ecc.). Mi dice che probabilmente a 5 anni sono già stato vaccinato ma un richiamo male non fa, mi spiega che mi inietta il vaccino per smallpox ma che è efficace anche contro monkeypox. Si raccomanda di evitare di espormi per questa settimana e mi spiega che il vaccino non evita sempre il contagio, ma che nel caso l’infezione sarà più “mild” e mima l’infezione mild abbassando il braccione verso la cosciona. “Ready?”. Manco riesco a dire yes che mi ha già forato (mano leggerissima). Aspetto una mezzoretta eventuali reazioni allergiche esco e vado nel village perché c’è il wi-fi (come mi ha spiegato il mio nurse…. Chiaramente della famiglia). Chiamo un Uber (evidentemente qui i tassisti non hanno bloccato Montreal) e torno alla conferenza in tempo per la sessione sul chem.

La sessione sul chem è al Global, room 1, immersa in un tripudio di musiche e microfoni che si sovrappongono. Ci sono tre relazioni, ma la più interessante è quella dell’attivista del NSW (Nuovo Galles del Sud). Non per caso vedo che usa un “nuovo” acronimo per la comunità: GBMSM. Inizia illustrando la situazione del NSW: è lo stato più popoloso dell’Australia, l’uso di sostanze è criminalizzato ma almeno c’è la riduzione del rischio, rispetto ai tre nuovi obiettivi di UNAIDS (95, 95, 95) loro veleggiano su 95, 95, 91, registrano un decremento dei casi di HIV nella comunità, ma un aumento di casi fra immigrati gay, la PrEP è sovvenzionata e usata soprattutto dagli GBMSM. Con la sua associazione, ACON, si sono inventati un programma, denominato M3THOD. Non prevede cose particolarmente innovative (riduzione del rischio personalizzata, sostituzione siringhe, supporto e counselling sulle sostanze, ecc.) ma il servizio è offerto in modo furbo. Bigliettini dotati di QRCode con un enorme “PNP?” sopra (che sta per party and play) con il codice il potenziale utente raggiunge le info sui servizi e di solito viene agganciato. Niente di particolarmente complicato ma funzionale.

L’Australia è molto più avanti di noi sotto molti punti di vista. Lo stato Vittoria ha pagato quasi 10 anni fa una serie internet interamente gay dove, fra le altre cose, si parlava di Pep, di comunicazione del proprio stato sierologico, di sesso con persona con HIV, ecc. Noi ancora le stiamo ipotizzando. Un impegno pluriennale che sta portando evidenti risultati. Purtroppo in Italia il gap culturale (che potremmo tranquillamente definire ignoranza), porta politici e amministratori a non investire in prevenzione i cui risultati si vedono dopo anni… sicuramente più di una legislatura. Preferiscono dimostrare di spendere soldi per le terapie, gli esami ecc. che danno risultati quantificabili e in brevissimo tempo, salvo il fatto che la gente continua a contagiarsi. Avete presente la via facile e quella articolata?

Nell’ultima plenaria della giornata si è parlato di long-acting PrEP. Attualmente risultano in PrEP 2,7 milioni di persone. La gran parte negli USA, UK e Francia ossia molto al di sotto degli obiettivi dati.

Come se non bastasse, dalle statistiche risultano problemi di aderenza e interruzione del trattamento nella PrEP giornaliera sicuramente per il costo, ma anche per motivi odiosi come discriminazione, eccessivo numero di visite, ecc.

Sono allo studio numerose soluzioni alternative che vanno nella direzione del long-acting, quelle più vicine all’uscita in commercio sono sicuramente l’anello vaginale e le iniezioni intramuscolari.

La relatrice inizia proprio dall’anello vaginale e prende le mosse dallo studio DREAM (Dapivirine Ring Extended Access and Monitoring) e il suo gemello HOPE che hanno dato risultati interessanti con una efficacia del 50%. L’anello viene sostituito dalla utente ogni 4 settimane. Tuttavia la presentazione successiva, fatta da una attivista non da un’altra ricercatrice, evidenzierà che questi studi anche belli sulla carta e nei risultati poi falliscono quando all’atto pratico poche donne usano o si possono permettere lo strumento, con buona pace del fatto che le renderebbe autonome dalla contrattazione dell’uso del condom, ancora molto problematica.

Le organizzazioni internazionali hanno disegnato un piano globale per l’accesso all’anello vaginale con Dapivirina che vanno dagli aspetti di registrazione e regolatori, alla catena di produzione, dalla domanda alle politiche locali e naturalmente all’advocacy.

Si passa poi al Cabotegravir LA iniettivo. Cita lo studio HPTN 083 su maschi cis e donne trans che fanno sesso con maschi e salta fuori un’efficacia del 66% rispetto al braccio con TDF/FTC le attuali pillole daily.

Lo studio HPTN 084 su donne fra i 18 e i 45 anni, oltre 3.200 arruolate, arriva al 88% sempre in comparazione con TDF/FTC. Questi dati sono usciti nel 2020, quindi dove sta il problema nel trasferire le evidenze scientifiche nella vita quotidiana?

La ricercatrice porta diversi esempi anche di ordine burocratico che sicuramente allungano i tempi, ma alla fine i costi sono sempre il freno migliore e sicuramente sottotraccia c’è una battaglia fra i grandi gruppo di big pharma che ha odorato il business.

La ricercatrice cerca anche di evidenziare i pro e i contro: fra i pro:

l’assunzione meno frequente
l’aderenza agevolata dalla durata
non ci sono controindicazioni con la terapia ormonale
l’incremento delle possibilità di scelta
un sistema più discreto/meno stigmatizzante

ma anche i contro, fra gli altri:

l’iniezione in sé e le possibili reazioni nel sito dell’iniezione
le possibili interazioni (Rifampicina)
non è indicato per persone con HBV
in caso di tossicità non può essere eliminato (ma questa a me pare una sciocchezza perché è previsto un mese di assunzione in pillole).

A viene da aggiungere che l’assurda volontà di mandare in clinica ogni 2 mesi gli utenti è un deterrente perché comporta un numero di visite in ospedale maggiore rispetto alla PrEP orale.

Anche la ricercatrice cita i centri community based come possibile soluzione ma in Italia non sarà così perché i centri di malattie infettive vi do per certo che non vorranno lasciar andare possibili clienti altrove. Aggiungo che anche le case di comunità previste dalla riforma del sistema sanitario nei territori, dovrebbero essere usate così come le unità mobili, il tutto a cura di infermieri che sono poi quelli che anche in ospedale fanno le iniezioni.

Sandro Mattioli
Plus aps