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Mi dispiace forse annoierò qualcuno, ma il tema della conferenza mondiale AIDS di Montreal è Re-engage, follow the science. Per cui è ormai chiaro che il punto centrale sarà cosa possono (o devono) fare le associazioni per recuperare quanto perduto in termini di uguaglianze, opportunità, crescita e, ovviamente, lotta senza quartiere al virus HIV. Contrariamente alla mentalità che mediamente si percepisce in Italia, qui tutti hanno molto chiaro che HIV non si combatte “solo” ingoiando pillole. A nessuno verrebbe in mente quello che sento dire da alcuni tristi medici italiani (avete i farmaci che diavolo altro volete). No, non funziona così. È chiaro a tutti che HIV si sconfigge seguendo quello che dice la ricerca per esempio la PrEP che da noi è schifata da chi dovrebbe promuoverla e negli USA è appannaggio dei bianchi per quasi il 70%. Lo sguardo degli attivisti è quindi rivolto agli afro-americani, ai cosiddetti “brown”, ai “latinos”, ma qui in Canada i riflettori della seconda giornata sono accesi sulle popolazioni indigene: su come hanno reagito alla crisi HIV/AIDS e, soprattutto, su come oggi sono state lasciate sole ad affrontare la ripresa della crisi. Di nuovo il problema dei fondi, stornati altrove ovviamente per scelte politiche, che hanno comportato l’abbandono di popolazioni ai margini, più vulnerabili, nella logica del “tanto a chi interessa” che noi italiani conosciamo molto bene.

La seconda plenaria è iniziata in modo insolito. Doris Peltier, una anziana indigena canadese, si è presentata come nonna di tanti nipoti ma cita in particolare i “due spiriti” che hanno intrapreso un percorso di transizione e che hanno tutto il suo sostegno. Ci dice di aver pregato. Si è messa in contatto con i suoi avi per vincere il nervosismo del discorso. Ci dice quanto le nazioni indigene siano state lasciate sole dal Quebec, senza fondi, senza sostegno e che la comunità internazionale, presente a Montreal, deve rendersi conto di cosa sta accadendo in Canada, di quanto il Paese sia cambiato in peggio. Doris allarga il ragionamento a tutte le cosiddette minoranze, popolazioni lasciate ai margini della società. Insomma un discorso da nonna, senza slide, senza citazioni da studi pubblicati. Il vecchio buon senso che, forse, dovremmo tornare a usare.

Andriy Klepikov dovrebbe introdurre la relatrice successiva, ma si prende qualche minuto in più. Andriy, direttore di Alliance for Public Health, è ucraino e non si fa scappare l’occasione per parlare della situazione drammatica nel suo Paese. Usa pochi minuti del suo tempo, ma denuncia una serie incredibile di porcherie commesse dall’esercito di invasione russo incluso l’incendio di farmaci, anche ARV, in alcuni ospedali. Julie Bruneau è medico dell’ospedale universitario di Montreal e ci illustra rapidamente la crisi degli oppioidi che, a quanto afferma la ricercatrice, a partire dagli USA sta investendo tutto il Nord America e non solo. La sua relazione parte dalle campagne anni ’90 contro il dolore cui sono seguite massicce prescrizioni di oppioidi che, negli anni, avrebbero portato una parte importante della popolazione all’abuso di eroina, poi di preparati sintetici come il fentanyl, il tutto amplificato da una realtà fatta di disuguaglianze sociali, assenza di programmi di harm reduction che, a loro volta, hanno consentito a HIV e HCV di progredire. Covid19 manco a dirlo ha peggiorato la situazione che, di nuovo manco a dirlo, riguarda principalmente afroamericani, nativi americani, ispanici. In Canada si stimano in circa 14.000 i morti per overdose da oppioidi negli ultimi 4 anni, in British Columbia sono morte più persone per overdose che per covid19.

Lo Stato sta reagendo ma siamo sempre nella logica del chiudere le stalle a vacche scappate. Ci si concentra giustamente sul covid e lascia la gente morire di altro, salvo poi correre ai ripari con soluzioni emergenziali… non so a me ricorda qualcosa. A seguire sessione su cosa abbiamo imparato dal covid. Da non credere: si torna a ripetere come un mantra al grammofono nothing on us without us, no person no nation left behind, crisis will not end without international cooperation and leadership e così via. Slogan storici che dovrebbero essere ormai parte della cultura comune ma che qui vengono ripetuti spesso e volentieri come se tutti ce lo fossimo dimenticato e, chissà, forse è proprio così. Forse le crisi covid, la guerra, il vaiolo, hanno davvero reso egoisti gli stati e non solo loro.

Ma sono le 10,45: inaugura il Global Village, il luogo della community dove tutto è possibile. Un caffè al volo e via a vedere cosa si sono inventati… tutta la forza delle sex worker, delle drag, delle magnifiche matrone africane non cambia il fatto che quest’anno il Global ha patito più di altri anni le regole dell’immigrazione canadese. Quest’anno è più piccolo del solito ma ci sono più networking zone dove parlare e confrontarci, il che non guasta dopo 2 anni di virtual. I networking sono organizzati ovviamente ma sono pieni già dalle prime ore… certo non pieni di gente come Chez Stiletto lo stand delle sex worker che, covid o non covid, sono sempre presenti e troppo avanti. Basta leggere gli slogan delle campagne con le quali hanno tappezzato le pareti a partire da “feminism need sex worker need feminism”. Un ses worker cinese arringa la folla, descrive lo stigma subito nel suo paese e come rispondere. E’ una donna minuta ma ha energia da vendere.
C’è lo stand di M-Pact che spinge sul buon sesso (di cui anche le persone con HIV hanno diritto), gli stand delle associazioni africane dove splendide, coloratissime matrone vendono braccialetti e abito con stampe tribal per finanziarsi, ci sono anche i cartelli della manifestazione a favore delle persone a cui non è stato concesso il visto: “pas de visa, pas de voix”, “shame in Canada” di Montreal Youth Force, ma i giovani sono un’area di pertinenza di Salvio. Mi limito a dire con gioia che esiste un movimento giovane che non si limita a reclamare spazi ma ha anche la forza e la capacità di riempirli di contenuti e di ideali.

I corridoi davanti al Global sono diventati un’esposizione artistica di tutto rilievo. Alcuni lavori sono fatti riutilizzando le pillole o i test di screening usati, ma c’è anche un bellissimo mandala che riprende il tema della conferenza.

Una sorta di fantastico pinocchio iper-colorato presenta la elder Mohawk, di cui ho già scritto, e parte la cerimonia di benedizione anche per il Global Village mentre una sex worker cinese arringa le colleghe. Troppo avanti anche per le benedizioni.

Sandro Mattioli
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