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Dalla terrazza esterna del nuovo centro congressi di Seattle, dove c’è voluto tutto il mio coraggio per sedermi (soffro un po’ di vertigini) inizio l’ultima relazione… penultima va… che è proprio su un tema che mi è caro, per ovvi motivi: l’ageing. L’invecchiamento.
La plenaria di oggi è stata molto interessante perché un geriatra – George A. Kuchel, University of Connecticut – con una evidente propensione per l’infettivologia ha tenuto finalmente una relazione dove sono stati messi a confronti modelli e dati relativi all’invecchiamento con e senza HIV.

Quella che a troppi medici infettivologi italiani sembra poco più che una seccatura su cui fare battute sportive, al Croi viene presa così sul serio da trovargli spazio in una plenaria davanti ad alcune migliaia di medici (e alcuni attivisti).

Lo studio di Greene pubblicato su JAIDS 2015, ha arruolato una coorte di persone con HIV adulte. Come si vede dall’immagine vengono descritti problemi che portano alla diagnosi di sindrome geriatrica che normalmente il medico riscontra in persone intorno agli 80 anni, se non che i dati fanno riferimento a persone con HIV di 60 anni o più giovani.

Che è, in sostanza, quello che sostiene il prof. Guaraldi in Italia basandosi sui dati raccolti dalla coorte di Modena. La presentazione prosegue con altri due studi del 2013 e del 2015 dove si spiega come HIV acceleri o accentui l’invecchiamento. Detto questo il geriatra spiega che il processo invecchiamento è multifattoriale, ossia non è un solo elemento che va in on e si incomincia ad invecchiare. I fattori sono molti, per esempio la metilazione del DNA, e HIV interviene a favorire o bloccare alcuni di essi provocando una accelerazione.

Con l’invecchiamento precoce avviene quella che Kuchel definisce, forse in modo un po’ avventuroso, un altro tipo di crisi AIDS ossia l’insorgenza di co-patologie, “un numero crescente di pazienti con HIV vive più a lungo ma invecchiano più velocemente mostrando precocemente segni di demenza e fragilità ossea che solitamente si vedono in pazienti più anziani (tradotto da David France, published nov. 1, 2009). E il punto non sta nel non voler invecchiare o pensavate di vivere per sempre, come mi sono sentito rispondere anche di recente da pregiati infettivologi in Italia.

Il punto è che questi temi vanni tenuti presente e alcuni problemi possono essere diagnosticati precocemente in modo da rendere meno penosa e più in salute le persone con HIV.
Ovvio che invecchiare è un processo naturale, dovrebbe essere altrettanto ovvio per dei clinici seri collaborare con i colleghi che si occupano di geriatria e portare dati a supporto invece di canzonare o fare battutine. Il dott. Kuchel infatti cita quello che sembra essere un problema anche negli USA: le barriere istituzionali. Siamo tutti così chiusi nei nostri settori che ci risulta difficile collaborare con altri. E con “settori” intende quelle che in Italia si chiamano società scientifiche e anche le istituzioni sanitarie che, a suo dire, dovrebbe essere meno concentrate sui propri obiettivi, più collaborative.

Sandro Mattioli
Plus aps

No, reservoir non è una elegante parola francese che indica la scorta di champagne del duca di Guermantes, bensì il motivo per cui non riusciamo a liberarci di HIV. Il serbatoio del virus, quello che è già bello abbondante dopo solo un anno di replicazione virale senza trattamento. Figuriamoci cosa può essere quello dei late presenter con 7/8 anni di replicazione non trattata.

Stamattina c’è stata una bellissima presentazione su questo tema. Bella quanto complicata. Quello del virus latente è davvero un tema complesso. La presentazione è stata tenuta da Janet M. Siliciano, The Johns Hopkins University School of Medicine dal titolo: HIV Reservoirs: Obstacles to a Cure.

La ricercatrice accenna con una slide ai “bei tempi andati” quando finalmente arrivarono i primi farmaci e si pensò evviva, è fatta: HIV viene ridotto ai minimi termini dal trattamento, poi si potrà interrompere quando HIV non replica più. Presto ci si rese conto che poco dopo l’interruzione del trattamento avveniva il cosiddetto rebound, ossia HIV riprendeva vita e tornava rapidamente ai livelli pre-ART. Ci si rese conto rapidamente che HIV resta latente e invisibile al sistema immunitario, un po’ come le spie russe in occidente nei film, pronto a tornare in lizza al primo accenno di calo della pressione farmacologica. Ma possono restare in stasi per sempre? Quasi.

Queste cellule degradano certo ma molto lentamente, al punto che se i reservoir sono pieni le latenti te le tieni tutta la vita. Diversi studi ormai hanno dimostrato una persistenza almeno ventennale delle latenze. Il tema non cambia nelle persone in terapia anche da molti anni, anche undetectable. I farmaci, infatti, aggrediscono i virus in fase di replicazione ma nulla possono contro i serbatoi. Le motivazioni sono molto tecniche e ovviamente non mi addentro, ma gioca un ruolo la proliferazione delle cellule infette, la viremia residuale e così via. C’è niente che si possa fare? La ricercatrice sembra storcere il naso. Sembra di si: varie combinazioni di immunizzazione terapeutica, agenti slatentizzanti, così come gli anticorpi neutralizzanti, possono portare a un certo grado di controllo immunitario. Tuttavia siamo ancora lontani dalla soluzione definitiva.

Fra le varie possibili sessioni contemporanee, ho scelto quella del covid e Mpox. Forse scelta non brillante. Ne ho tratto una sensazione di déjà-vu, come quando anni fa si tentava l’utilizzo di questo o quel farmaco contro HIV. Oggi è la volta di sars-cov-2. La presentazione più interessante è stata, forse, quella di Takeki Uehara della Shionogi, quella del Crestor per intenderci, che ha presentato l’abstract: Ensitrelvir for mild-to-moderate covid-19. Lo studio, in fase, 3, si propone di valutare efficacia e sicurezza di Ensitrelvir (ma chi inventa i nomi delle molecole?), una volta al giorno, per 5 giorni di trattamento orale, in persone con covid definito lieve/moderato, in persone fra i 12 e i 69 anni, con o senza vaccinazione ma con un rischio che la malattia passi a severa.

Come endpoint primario lo studio si propone di valutare la risoluzione dei sintomi di covid-19, mentre come endpoint secondario principale di valutare la quantità di RNA virale al quarto giorno di somministrazione, i tempi per giungere a un esito negativo e la sicurezza. C’è anche un endpoint esplorativo relativo alla presenza di sintomi caratteristici del “long covid”.

Devo dire che le caratteristiche dei pazienti mi danno l’idea che anche i giapponesi selezionano pazienti perfetti: maschi, ovviamente, età mediana 35 anni, la gran parte vaccinati contro il virus del covid, etnia asiatica, quasi tutti con la variante omicron, con o senza rischio di malattia severa.

In questo quadro il farmaco antivirale pare abbia dato ottimi risultati:

rapida risoluzione dei sintomi
potente attività antivirale
87% di riduzione del virus rispetto al braccio placebo

Ben tollerato e pare che riduca anche i sintomi del long covid. Detto questo non posso fare a meno di chiedermi che dati avreste avuto su pazienti di 60 anni ma il ricercatore sembra un samurai in giacca e cravatta, vorrei evitare di perdere una mano per cui evito di scrivere la domanda sul Q&A della piattaforma della conferenza.

Altri studi propongono di agire contro covid con interferone pegilato, altro déjà-vu, che sembra dia buoni risultati, o gli anticorpi monoclonali amubarvimab e romlusevimab che porterebbero a una riduzione molto consistente delle ospedalizzazioni.

La presentazione sul vaiolo delle scimmie, recentemente ribattezzato MPox per ragioni etiche, è stata sicuramente la più interessante della sessione. Con il titolo Mpox in people living with hiv and cd4 counts <350 cells/mm3 – a global case series, Chloe Orkin del Queen Mary University Hospital di Londra, ha fatto inorridire e preoccupare tutti.
Si è trattato di una raccolta di dati, a cui ha partecipato anche l’Italia, in tutto il mondo.

Degli 85.000 casi di Mpox rilevati in 111 Paesi, fra il 38 e il 50% avevano l’HIV, la maggior parte in trattamento ARV, con più di 500 CD4 e quindi con una situazione al basale sovrapponibile a quella delle persone senza HIV. Lo studio, che ha coinvolto 19 Paesi prevalentemente in Europa e Americhe, è andato a cercare i casi di persone particolari. Infatti uno dei criteri di ammissione voleva un numero di CD4 > 350 che, come sapete, è indice di un sistema immunitario già compromesso da HIV e i partecipanti alla ricerca registravano una situazione immunitaria molto problematica nella quale Mpox ha sguazzato replicando in tutta tranquillità e massacrando cute e organi del paziente. Vi risparmio le immagini che sono state mostrate. Per altro, farmaci specifici per Mpox sono stati resi disponibili solo in USA e Europa, mi è facile pensare UE. Gli altri arrangiarsi, per cui ecco i pazienti con complicazioni con lesioni necrotiche severe alla cute, con sintomi respiratori, complicazioni rettali, orofaringee, oculari, al sistema nervoso centrale, arresto cardiaco – respiratorio. Insomma, la epidemia di Mpox si è rivelata essere tutt’altro che una sciocchezza per chi vive, viveva, con HIV e aveva meno di 350 CD4. Infatti le conclusioni della ricercatrice sono drammatiche nell’evidenza scientifica: tutte le 27 persone morte per l’azione di Mpox avevano meno di 200 CD4.
La severità delle complicazioni correla con i CD4 e la carica virale. Questo porta a dire anche che:

Mpox è un’infezione patogena opportunistica che correla con la definizione di Aids. Cosa di cui CDC e OMS dovrebbero tenere conto nella classificazione internazionale delle patologie e, addirittura in caso di CD <200 c’è la raccomandazione clinica di una vigilanza come nel caso di sepsi e, ovviamente, di diffondere maggiormente i farmaci e di prevenire con i vaccini la diffusione di Mpox, in particolare in quei Paesi che non hanno accesso a queste risorse.

Sandro Mattioli
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Forse perché è stato l’ultimo lavoro di Giulio, forse perché Plus ha collaborato inviando persone al Policlinico di Modena per l’arruolamento, ma ho deciso di partecipare all’ultima sessione di oggi dedicata allo studio Mosaico. È quello del vaccino contro HIV pensato per gli MSM che, per chi ancora non lo sapesse, è stato interrotto perché non efficace. Il titolo della sessione è “Results from the Mosaico HIV vaccine trial and future directions for HIV vaccines”.

La sessione è iniziata con la rapidissima illustrazione dello studio da parte di Susan Buchbinder del San Francisco Dep. Of Public Heath, che ha spiegato il razionale del vaccino che, come ricorderete, cercava di mettere insieme vari pezzetti del virus per stimolare la risposta immunitaria al netto delle varianti, ha descritto la distribuzione in effetti i centri di sperimentazione sono stati molti alcuni anche in Italia. Ricordo anche che Plus ha collaborato con il Policlinico di Modena inviando diverse decine di arruolandi. La particolarità dell’arruolamento consisteva nel fatto che gli utenti in PrEP non potevano partecipare allo studio. Tuttavia gli arruolati durante il trial se cambiavano idea potevano entrare in PrEP, restando nel trial ma va detto che in pochi hanno accettato la PrEP.

Apparentemente sembra una cosa molto buona e in effetti lo è. Tuttavia non mi sfugge il fatto che chi ha optato per tentare la via del vaccino, lo ha fatto perché non era in PrEP e probabilmente non voleva neppure entrare in quel trip fatto – anche – di visite, test, prescrizioni, così come giudizi, pregiudizi e ignoranza assortita. Col senno di poi sono tutti dei fenomeni, ma forse sarebbe stato utile un coinvolgimento della community MSM che andasse oltre il semplice invio, o forse una volta per tutte, possiamo dire che parlare con un medico non è counselling ma è colloquio medico-paziente e sappiamo tutti come sono quelle dinamiche, per quello che vale generalizzare.

La Buchbinder ha proseguito con le caratteristiche dei partecipanti – in gran parte MSM con un 6% di donne trans e persone non binarie – la retention in care è stata altissima evidentemente c’era fiducia nella sperimentazione, la safety ossia sicurezza è stata dimostrata, ma il numero di contagi nel braccio di sperimentazione e in quello col placebo erano sovrapponibili come si vede anche nell’immagine. L’ultima slide della Buchbinder ci dice che, nonostante non ci siano stati problemi con la sicurezza del prodotto, il regime non è stato efficace per prevenire il contagio da HIV.

Punto.

Ovviamente stiamo parlando di una ricerca che poteva andare bene come male. Tutti i partecipanti erano stati largamente avvisati che c’erano dei rischi. Ma i dati della partecipazione soprattutto in America Latina e della retention mi fanno pensare che ci fosse una grande speranza, una grande attesa che è stata delusa.

Dietro ai numeri della slide della Buchbinder, ci sono delle persone che hanno messo in gioco i loro corpi, le loro speranze di un mondo senza HIV, qualcuno si è anche giocato la salute al di là delle buone intenzioni.

Per questa ragione, mi sarei aspettato un we feel sorry for all the people who were enrolled in the study. Invece niente, anzi, quasi il fastidio di dover parlare del Mosaico quando c’era un altro relatore che doveva parlare di scienza vaccinale. Qualcosa del genere la Buchbinder lo ha anche detto.

Nel grafico gli esiti di Imbodoko e Mosaico, le curve delle infezioni del braccio di sperimentazione e del placebo sono sovrapponibili per cui i vaccini sperimentali non hanno fatto la differenza.

L’altro relatore, Lawrence Corey del Cancer Research Center di Seattle, ha fatto una overview sugli studi sui vaccini, su Imbodoko (lo studio “gemello” africano su persone eterosessuali pure lui fallito), ha descritto le capacità tecniche che occorrono per realizzare un vaccino, capacità che il centro possiede, ha detto con orgoglio: “we have a rich scientific portfolio in approaches and our approaches and our scientific challenge is to put these different approaches into a coherent vaccine regimen”. La sensazione è che fosse più preoccupato per i soldi di Jannsen, che ovviamente non arriveranno più, che per altro.

E con queste ci hanno salutato e via. Non una parola su cosa credono sia successo, se lo hanno capito, non una possibilità al numerosissimo pubblico intervenuto di interloquire.

Siamo negli Stati Uniti è vero, la patria del dio denaro al quale non può fregare di meno di quei creduloni dei peruviani o dei messicani che si sono arruolati in massa, ma comunque è stato un brutto modo di chiudere una pagina che aveva suscitato attese e speranze.

Sandro Mattioli
Plus aps