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È domenica e giustamente in plenaria ci presentano studi su studi alla ricerca di vaccini o cure.
Con il titolo: Approaches for HIV cure and vaccine research ben due ricercatori hanno cercato di farmi capire a che punto siamo con le ricerche sia per il vaccino sia per la cura, tema molto complesso o almeno lo è per un paziente come me. In realtà gli studi per cura e vaccino sono interconnessi sotto molti aspetti e hanno sicuramente un aspetto fondamentale in comune: siamo lontani dal successo. A seconda delle aree di ricerca, siamo ancora nell’ambito di studi sugli animali, di ricerca di strategie, di target da colpire, maybe o could be sono le parole più spesso usate. Quindi mettiamoci il cuore in pace, la strada è ancora lunga.
Detto questo la ricerca sta proseguendo su una area di azione che è stata illustrata, in particolare, da Thomas Rasmussen, Aarhus University Hospital in Danimarca.

Il ricercatore ha fatto una vasta disamina delle nostre speranze attuali, ossia sui vari strumenti che la ricerca sta valutando, studiando e sperimentando: dagli anticorpi neutralizzanti (bNAb), ai recettori antagonisti, dai vaccini terapeutici agli immunomodulatori alle citochine e così via.

Certamente ci sono speranze, l’area di ricerca è molto ampia, complessa e – presumo – costosa se devo dare retta alla bacchettata di Rasmussen alla UE accusata di investire molto meno degli USA in ricerca. Ma è altrettanto vero che dopo 40 anni di ricerca siamo ancora lontani da un risultato che possa guarire qualcuno.
Gli studi su immunoterapie su modelli animali sembrano promettenti e si spera bene per gli studi sugli umani;
l’uso di bNAb all’inizio della terapia antiretrovirale può incrementare l’attività delle cellule T e forse portare a controllare l’infezione senza terapia;
si ipotizza che la immunoterapia possa colpire i reservoir all’inizio del trattamento antiretrovirale (o durante), cosa che potrebbe modificare il corso dell’infezione da HIV e così via.

È poco probabile che si arrivi in tempi brevi a qualcosa che porti alla completa eradicazione di HIV dai nostri corpi, ma tutte queste aree di analisi e ricerca sono parte di un quadro molto ampio ossia sono alcuni degli approcci possibili e testabili per giungere a una cura contro HIV. Come dire se questo non funziona proviamo quello, scusate l’estrema sintesi, resta il fatto che sono passati 40 anni e ancora siamo ai tentativi. Ammetto che sono un po’ infastidito e condivido in pieno il parere del dott. Rasmussen: gli enti pubblici, UE in particolare, devono investire più fondi in ricerca. Forse vale la pena ricordare che i morti per cause aids correlate sfiorano il milione.

Nel pomeriggio devo ammettere che ho saltato qualche sessione perché, grazie soprattutto a Salvio che è qui con me, ho saputo che il Canada, o quantomeno il Quebec, offre il vaccino contro il vaiolo a chiunque lo chieda purché esposto al rischio. Anche se a 5 anni credo di essere stato vaccinato contro il vaiolo, considerando che è passato più di mezzo secolo, ho pensato di farlo.

Quindi sono andato in uno dei quattro centri vaccinali, il più vicino. Una signora mi ha chiesto se ero a rischio e mi ha messo sotto al naso un elenco di gruppi esposti… io sono dentro a 2/3 dei gruppi. La signora ha sorriso e mi porta a un tablet dove inizia a mettere dentro i miei dati. “Lei ha più di 18 anni direi” – mi dice – “Esatto, 18 e sei mesi” confermo. Credo che sia ancora la che ride. Con il tablet mi prende un appuntamento “fake” per le 19,15 (sono andato alle 12,15), poi passa a un’altra signora che sbriga la parte amministrativa, stampa un foglio e una etichetta, fa un cenno a un ragazzino nero coi capelli gialli che mi accompagna al punto vaccinale nr. 1, che poi è una delle scrivanie in un ampio open space, pieno di scrivanie dove siedono infermieri (toh? Non medici a vaccinare). Il mio nurse ha due braccia grosse come le mie cosce, mi fa le domande di rito (segni del contagio, contatto con un contagiato, allergie, ecc.). Mi dice che probabilmente a 5 anni sono già stato vaccinato ma un richiamo male non fa, mi spiega che mi inietta il vaccino per smallpox ma che è efficace anche contro monkeypox. Si raccomanda di evitare di espormi per questa settimana e mi spiega che il vaccino non evita sempre il contagio, ma che nel caso l’infezione sarà più “mild” e mima l’infezione mild abbassando il braccione verso la cosciona. “Ready?”. Manco riesco a dire yes che mi ha già forato (mano leggerissima). Aspetto una mezzoretta eventuali reazioni allergiche esco e vado nel village perché c’è il wi-fi (come mi ha spiegato il mio nurse…. Chiaramente della famiglia). Chiamo un Uber (evidentemente qui i tassisti non hanno bloccato Montreal) e torno alla conferenza in tempo per la sessione sul chem.

La sessione sul chem è al Global, room 1, immersa in un tripudio di musiche e microfoni che si sovrappongono. Ci sono tre relazioni, ma la più interessante è quella dell’attivista del NSW (Nuovo Galles del Sud). Non per caso vedo che usa un “nuovo” acronimo per la comunità: GBMSM. Inizia illustrando la situazione del NSW: è lo stato più popoloso dell’Australia, l’uso di sostanze è criminalizzato ma almeno c’è la riduzione del rischio, rispetto ai tre nuovi obiettivi di UNAIDS (95, 95, 95) loro veleggiano su 95, 95, 91, registrano un decremento dei casi di HIV nella comunità, ma un aumento di casi fra immigrati gay, la PrEP è sovvenzionata e usata soprattutto dagli GBMSM. Con la sua associazione, ACON, si sono inventati un programma, denominato M3THOD. Non prevede cose particolarmente innovative (riduzione del rischio personalizzata, sostituzione siringhe, supporto e counselling sulle sostanze, ecc.) ma il servizio è offerto in modo furbo. Bigliettini dotati di QRCode con un enorme “PNP?” sopra (che sta per party and play) con il codice il potenziale utente raggiunge le info sui servizi e di solito viene agganciato. Niente di particolarmente complicato ma funzionale.

L’Australia è molto più avanti di noi sotto molti punti di vista. Lo stato Vittoria ha pagato quasi 10 anni fa una serie internet interamente gay dove, fra le altre cose, si parlava di Pep, di comunicazione del proprio stato sierologico, di sesso con persona con HIV, ecc. Noi ancora le stiamo ipotizzando. Un impegno pluriennale che sta portando evidenti risultati. Purtroppo in Italia il gap culturale (che potremmo tranquillamente definire ignoranza), porta politici e amministratori a non investire in prevenzione i cui risultati si vedono dopo anni… sicuramente più di una legislatura. Preferiscono dimostrare di spendere soldi per le terapie, gli esami ecc. che danno risultati quantificabili e in brevissimo tempo, salvo il fatto che la gente continua a contagiarsi. Avete presente la via facile e quella articolata?

Nell’ultima plenaria della giornata si è parlato di long-acting PrEP. Attualmente risultano in PrEP 2,7 milioni di persone. La gran parte negli USA, UK e Francia ossia molto al di sotto degli obiettivi dati.

Come se non bastasse, dalle statistiche risultano problemi di aderenza e interruzione del trattamento nella PrEP giornaliera sicuramente per il costo, ma anche per motivi odiosi come discriminazione, eccessivo numero di visite, ecc.

Sono allo studio numerose soluzioni alternative che vanno nella direzione del long-acting, quelle più vicine all’uscita in commercio sono sicuramente l’anello vaginale e le iniezioni intramuscolari.

La relatrice inizia proprio dall’anello vaginale e prende le mosse dallo studio DREAM (Dapivirine Ring Extended Access and Monitoring) e il suo gemello HOPE che hanno dato risultati interessanti con una efficacia del 50%. L’anello viene sostituito dalla utente ogni 4 settimane. Tuttavia la presentazione successiva, fatta da una attivista non da un’altra ricercatrice, evidenzierà che questi studi anche belli sulla carta e nei risultati poi falliscono quando all’atto pratico poche donne usano o si possono permettere lo strumento, con buona pace del fatto che le renderebbe autonome dalla contrattazione dell’uso del condom, ancora molto problematica.

Le organizzazioni internazionali hanno disegnato un piano globale per l’accesso all’anello vaginale con Dapivirina che vanno dagli aspetti di registrazione e regolatori, alla catena di produzione, dalla domanda alle politiche locali e naturalmente all’advocacy.

Si passa poi al Cabotegravir LA iniettivo. Cita lo studio HPTN 083 su maschi cis e donne trans che fanno sesso con maschi e salta fuori un’efficacia del 66% rispetto al braccio con TDF/FTC le attuali pillole daily.

Lo studio HPTN 084 su donne fra i 18 e i 45 anni, oltre 3.200 arruolate, arriva al 88% sempre in comparazione con TDF/FTC. Questi dati sono usciti nel 2020, quindi dove sta il problema nel trasferire le evidenze scientifiche nella vita quotidiana?

La ricercatrice porta diversi esempi anche di ordine burocratico che sicuramente allungano i tempi, ma alla fine i costi sono sempre il freno migliore e sicuramente sottotraccia c’è una battaglia fra i grandi gruppo di big pharma che ha odorato il business.

La ricercatrice cerca anche di evidenziare i pro e i contro: fra i pro:

l’assunzione meno frequente
l’aderenza agevolata dalla durata
non ci sono controindicazioni con la terapia ormonale
l’incremento delle possibilità di scelta
un sistema più discreto/meno stigmatizzante

ma anche i contro, fra gli altri:

l’iniezione in sé e le possibili reazioni nel sito dell’iniezione
le possibili interazioni (Rifampicina)
non è indicato per persone con HBV
in caso di tossicità non può essere eliminato (ma questa a me pare una sciocchezza perché è previsto un mese di assunzione in pillole).

A viene da aggiungere che l’assurda volontà di mandare in clinica ogni 2 mesi gli utenti è un deterrente perché comporta un numero di visite in ospedale maggiore rispetto alla PrEP orale.

Anche la ricercatrice cita i centri community based come possibile soluzione ma in Italia non sarà così perché i centri di malattie infettive vi do per certo che non vorranno lasciar andare possibili clienti altrove. Aggiungo che anche le case di comunità previste dalla riforma del sistema sanitario nei territori, dovrebbero essere usate così come le unità mobili, il tutto a cura di infermieri che sono poi quelli che anche in ospedale fanno le iniezioni.

Sandro Mattioli
Plus aps

 

Il Global Village inaugura il giorno dopo l’apertura della conferenza e chiude un giorno prima. Nonostante frequenti il Global da tanti anni, ancora non mi rassegno a questa stranezza. Pazienza.
La cerimonia di chiusura del Global, è iniziata con un canto indigeno, una preghiera per un sicuro ritorno a casa. Una super colorata drag queen ha preso la parola, l’accento olandese (credo) non rendeva semplice la comprensione per me, ma in sostanza ha infervorato i presenti. Buona parte degli attivisti in realtà già smontando i booth, via i cartelli, via gli ultimi condom e femidom (quest’anno ovunque), del resto oggi i volontari della conferenza stanno regalando pacchi da 5 self test per covid, chiari segnali dell’attenzione dovuta in una conferenza seria. A dirla tutta c’è anche la possibilità di fare un test molecolare con risposta entro 10 ore.

Ma torniamo alla cerimonia di chiusura del Global. La drag queen invita sul palco un gruppo pop canadese. Da vedere così sembrano più metal vestiti di pelle e reti come sono, ma sono decisamente pop. Bravi. Fanno spettacolo, ballano e cantano soprattutto la ragazza bionda con la calza smagliata ha una gran voce e un controllo vocale incredibile. Un componente del gruppo con lunghe treccine rosse, smette di cantare ed esce dal gruppo, la musica si ferma e si rivolge al pubblico e dice a tutti di essere HIV+ – a me queste cose emozionano sempre – e si lancia in un breve ma appassionato discorso politico: dice che grazie ai farmaci è undetectable e ha ricominciato a vivere, a cantare, a lavorare. Chiede maggiore azione per far si che tutti possano avere accesso ai farmaci e riprendere a vivere.
È un ragazzo minuto, più treccine che fisico, più bravo a ballare che a cantare forse, ma ha guadagnato 1000 punti facendo vedere a tutti che anche con una canzone e un balletto si può promuovere un principio.

La plenaria di oggi, ultima giornata di conferenza, ha come tema HIV e co-infezioni e si apre con la relazione di Marina KLEIN, McGill University Health Centre, Canada che ci espone un racconto di fantasia: “Triple elimination: HIV, HCV, HBV”. In effetti potrebbe iniziare con “eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise” invece sembra crederci, anzi il sottotitolo è “cosa serve per raggiungere gli obiettivi”.
In primis spiega cosa intende con eradicazione e eliminazione. Per eradicazione cita lo smallpox come azzeramento permanente dell’incidenza mondiale dell’infezione, senza che occorrano ulteriori interventi. Per eliminazione cita le epatiti virali e HIV, e parla di riduzione dell’incidenza dell’infezione/malattia dove non è più una minaccia per la salute pubblica, ma sono necessari controlli frequenti. Sostanzialmente ci ha raccontato come siamo messi in ambito HIV, cosa che credo tutti conosciate bene, e soprattutto quali sono i problemi che ancora dobbiamo affrontare. Per esempio: in merito ai test, il self test è ancora un problema perché è poco diffuso e del resto è di terza generazione (ossia 3 mesi di periodo finestra), per tacere delle reali possibilità di raggiungere le popolazioni chiave. Il trattamento, per fortuna che c’è ma dura tutta la vita e consiste in pillole da prendere tutti i giorni. Gli LA stanno per arrivare ma arriveranno dove e a chi davvero servono? Sulla prevenzione: ancora il tema donne, la necessità di espandere la PrEP, non esiste alcun vaccino e scusate se è poco dopo 40 anni di ricerca e milioni di morti.

Per HBV la situazione è complessa. Serve un test DNA, l’accesso al Tenofovir è un problema in molti Paesi, la vaccinazione è un’arma ottima ma ancora buona parte del mondo non ha accesso alla vaccinazione contro HBV. Per quanto riguarda HCV, la dottoressa insiste sulla necessità di test RNA per confermare la infezione cronica, raggiungere le popolazioni chiave e, quindi, andare oltre i centri specialistici, è ancora un problema e noi ne sappiamo qualcosa, penso al progetto “Stop HCV”. Non esiste vaccino, la riduzione del rischio spesso è inadeguata, la criminalizzazione dell’uso di sostanza sicuramente non aiuta a cancellare l’HCV dalla faccia della terra. Esiste una cura che funziona bene, per lo più su tutti i genotipi, ma non è accessibile a tutti. In altre parole serve un vaccino efficace e accessibile.

Ormai è abbastanza chiaro che chi sei e dove vivi ha un peso importante nella sconfitta di queste infezioni. Se sei IDU, MSM, indigeno, donna, afro-americano potresti essere elegibile per i trattamenti ma non riceverli. In tutto questo sicuramente l’arrivo del Covid non ha aiutato, la ricercatrice calcola in 72.000 i morti in più per HCV. Come se non bastasse c’è anche il monkeypox appena dichiarato emergenza sanitaria globale. Alla fine della fiera neppure la ricercatrice ha le risposte, ci propone un progetto canadese che tende a rendere più orizzontale l’approccio sanitario con il coinvolgimento della community. In altre parole le solite chiacchiere.

Vorrei spendere due parole sulla cosiddetta Positive Lounge. Un luogo dove le persone con HIV possono riposare, se lo desiderano, bere qualcosa (caffè, succhi si frutta, è cosa nota che chi ha HIV non beve altro), o anche fruire di servizi quali sessioni di yoga o di massaggi. Il lounge è presidiato da un nutrito numero di volontari e volontarie per ovvi motivi di servizio. Ovviamente nessuno ti fa il test HIV all’ingresso, ma solitamente un minimo di etica fa si che il servizio sia fruito pressoché solo da persone con HIV, spesso stagionate come me, o che hanno problemi fisici e necessità di riposo. A me è sempre sembrato una cosa di grande civiltà, sensibilità e rispetto per le fragilità di persone con HIV che, nonostante gli anni e gli acciacchi sono presenti e danno un contributo fondamentale alla riuscita della conferenza.

Per la prima volta nella mia via associativa, mi sono fermato fino alla fine della conferenza per vedere il lavoro dei rapporteur (praticamente riassumono la conferenza per aree di competenza) e la cerimonia di chiusura.

I rapporteur fanno decisamente un lavoraccio. Infatti per ogni “track” devono riassumere gli elementi principali delle relazioni. Si tratta di una conferenza mondiale, per cui vi lascio immaginare. Devo dire che anche dai riassunti non è emerso niente di particolarmente nuovo, semmai conferme: molto lavoro sugli anticorpi neutralizzanti, sulla cura siamo ancora alle sfide o a “servono altri studi per…” mi è sembrato di capire che la strategia shock e kill sia ancora in auge e qualche studio promette bene. Ho visto anche che si parla spesso di patches con micro-aghi che potrebbero aiutare i long acting.

Finalmente il Governo canadese si è fatto vivo. Durante la cerimonia di chiusura è comparso il Ministro per la Salute, prontamente contestato dagli attivisti e dalle attiviste, in particolare sex worker. Ho adorato l’attivista anziana e con il deambulatore ma in piedi e con il cartello sopra la testa. Un esempio per tutti. Il Ministro non ha fatto una piega anzi, forse ha preso in contropiede i manifestanti dichiarando, da politico consumato, la piena disponibilità a lavorare con la community, a portare avanti un progetto di legge che modifichi – se ho ben capito – quella attuale che prevede l’obbligo di disclosure per chi ha HIV prima di un rapporto sessuale, e così via. Nessun accenno alla decriminalizzazione del sex working.

 

E con questo si chiude la ventiquattresima conferenza mondiale AIDS. Sicuramente non è una conferenza che verrà ricordata per una svolta nella lotta contro HIV/AIDS, in effetti non ho grandi novità e da quel che ho ascoltato anche diversi clinici sono d’accordo con me. Tuttavia, dopo due anni di covid, era ora di ricominciare a fare advocacy, community, a scambiarci parere, best practices, a mettere li idee per i futuri progetti perché, in fondo, a questo serve la International AIDS Conference. La cosa che ho notato con molto piacere è stata una buona presenza di giovani, nonostante le leggi immigratorie di merda di cui anche il Canada si è dotato, a quanto apprendo. In particolare ho conosciuto un paio di attivisti dell’Asociación Ciclo Positivo, Argentina che, a covid piacendo, andrò sicuramente a visitare a Buenos Aires non appena sarà possibile andarci. Ragazzi giovani ma che hanno trovato il modo di cambiare in meglio la legge su HIV nel loro Paese e che parlano già in un’ottica globale. Il futuro promette bene. Ma non voglio anticipare la parte “giovani” che è giustamente di appannaggio di Salvio, che scriverà più avanti.

Sandro Mattioli
Plus aps

Mi dispiace forse annoierò qualcuno, ma il tema della conferenza mondiale AIDS di Montreal è Re-engage, follow the science. Per cui è ormai chiaro che il punto centrale sarà cosa possono (o devono) fare le associazioni per recuperare quanto perduto in termini di uguaglianze, opportunità, crescita e, ovviamente, lotta senza quartiere al virus HIV. Contrariamente alla mentalità che mediamente si percepisce in Italia, qui tutti hanno molto chiaro che HIV non si combatte “solo” ingoiando pillole. A nessuno verrebbe in mente quello che sento dire da alcuni tristi medici italiani (avete i farmaci che diavolo altro volete). No, non funziona così. È chiaro a tutti che HIV si sconfigge seguendo quello che dice la ricerca per esempio la PrEP che da noi è schifata da chi dovrebbe promuoverla e negli USA è appannaggio dei bianchi per quasi il 70%. Lo sguardo degli attivisti è quindi rivolto agli afro-americani, ai cosiddetti “brown”, ai “latinos”, ma qui in Canada i riflettori della seconda giornata sono accesi sulle popolazioni indigene: su come hanno reagito alla crisi HIV/AIDS e, soprattutto, su come oggi sono state lasciate sole ad affrontare la ripresa della crisi. Di nuovo il problema dei fondi, stornati altrove ovviamente per scelte politiche, che hanno comportato l’abbandono di popolazioni ai margini, più vulnerabili, nella logica del “tanto a chi interessa” che noi italiani conosciamo molto bene.

La seconda plenaria è iniziata in modo insolito. Doris Peltier, una anziana indigena canadese, si è presentata come nonna di tanti nipoti ma cita in particolare i “due spiriti” che hanno intrapreso un percorso di transizione e che hanno tutto il suo sostegno. Ci dice di aver pregato. Si è messa in contatto con i suoi avi per vincere il nervosismo del discorso. Ci dice quanto le nazioni indigene siano state lasciate sole dal Quebec, senza fondi, senza sostegno e che la comunità internazionale, presente a Montreal, deve rendersi conto di cosa sta accadendo in Canada, di quanto il Paese sia cambiato in peggio. Doris allarga il ragionamento a tutte le cosiddette minoranze, popolazioni lasciate ai margini della società. Insomma un discorso da nonna, senza slide, senza citazioni da studi pubblicati. Il vecchio buon senso che, forse, dovremmo tornare a usare.

Andriy Klepikov dovrebbe introdurre la relatrice successiva, ma si prende qualche minuto in più. Andriy, direttore di Alliance for Public Health, è ucraino e non si fa scappare l’occasione per parlare della situazione drammatica nel suo Paese. Usa pochi minuti del suo tempo, ma denuncia una serie incredibile di porcherie commesse dall’esercito di invasione russo incluso l’incendio di farmaci, anche ARV, in alcuni ospedali. Julie Bruneau è medico dell’ospedale universitario di Montreal e ci illustra rapidamente la crisi degli oppioidi che, a quanto afferma la ricercatrice, a partire dagli USA sta investendo tutto il Nord America e non solo. La sua relazione parte dalle campagne anni ’90 contro il dolore cui sono seguite massicce prescrizioni di oppioidi che, negli anni, avrebbero portato una parte importante della popolazione all’abuso di eroina, poi di preparati sintetici come il fentanyl, il tutto amplificato da una realtà fatta di disuguaglianze sociali, assenza di programmi di harm reduction che, a loro volta, hanno consentito a HIV e HCV di progredire. Covid19 manco a dirlo ha peggiorato la situazione che, di nuovo manco a dirlo, riguarda principalmente afroamericani, nativi americani, ispanici. In Canada si stimano in circa 14.000 i morti per overdose da oppioidi negli ultimi 4 anni, in British Columbia sono morte più persone per overdose che per covid19.

Lo Stato sta reagendo ma siamo sempre nella logica del chiudere le stalle a vacche scappate. Ci si concentra giustamente sul covid e lascia la gente morire di altro, salvo poi correre ai ripari con soluzioni emergenziali… non so a me ricorda qualcosa. A seguire sessione su cosa abbiamo imparato dal covid. Da non credere: si torna a ripetere come un mantra al grammofono nothing on us without us, no person no nation left behind, crisis will not end without international cooperation and leadership e così via. Slogan storici che dovrebbero essere ormai parte della cultura comune ma che qui vengono ripetuti spesso e volentieri come se tutti ce lo fossimo dimenticato e, chissà, forse è proprio così. Forse le crisi covid, la guerra, il vaiolo, hanno davvero reso egoisti gli stati e non solo loro.

Ma sono le 10,45: inaugura il Global Village, il luogo della community dove tutto è possibile. Un caffè al volo e via a vedere cosa si sono inventati… tutta la forza delle sex worker, delle drag, delle magnifiche matrone africane non cambia il fatto che quest’anno il Global ha patito più di altri anni le regole dell’immigrazione canadese. Quest’anno è più piccolo del solito ma ci sono più networking zone dove parlare e confrontarci, il che non guasta dopo 2 anni di virtual. I networking sono organizzati ovviamente ma sono pieni già dalle prime ore… certo non pieni di gente come Chez Stiletto lo stand delle sex worker che, covid o non covid, sono sempre presenti e troppo avanti. Basta leggere gli slogan delle campagne con le quali hanno tappezzato le pareti a partire da “feminism need sex worker need feminism”. Un ses worker cinese arringa la folla, descrive lo stigma subito nel suo paese e come rispondere. E’ una donna minuta ma ha energia da vendere.
C’è lo stand di M-Pact che spinge sul buon sesso (di cui anche le persone con HIV hanno diritto), gli stand delle associazioni africane dove splendide, coloratissime matrone vendono braccialetti e abito con stampe tribal per finanziarsi, ci sono anche i cartelli della manifestazione a favore delle persone a cui non è stato concesso il visto: “pas de visa, pas de voix”, “shame in Canada” di Montreal Youth Force, ma i giovani sono un’area di pertinenza di Salvio. Mi limito a dire con gioia che esiste un movimento giovane che non si limita a reclamare spazi ma ha anche la forza e la capacità di riempirli di contenuti e di ideali.

I corridoi davanti al Global sono diventati un’esposizione artistica di tutto rilievo. Alcuni lavori sono fatti riutilizzando le pillole o i test di screening usati, ma c’è anche un bellissimo mandala che riprende il tema della conferenza.

Una sorta di fantastico pinocchio iper-colorato presenta la elder Mohawk, di cui ho già scritto, e parte la cerimonia di benedizione anche per il Global Village mentre una sex worker cinese arringa le colleghe. Troppo avanti anche per le benedizioni.

Sandro Mattioli
Plus aps