Articoli

Con questo report vorrei provare a fare il punto sulla situazione di HIV. Sappiamo tutti, credo, che troppa gente pensa che HIV sia “over”, un problema risolto che alla peggio riguarda “gli africani e i gay” (risposta a survey, studente Alma Mater Bologna).

Vediamo se è vero attraverso i dati raccolti da ECDC – il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie – che ha la responsabilità di rafforzare le difese dei Paesi membri dell’UE contro le malattie infettive.

Mi baserò sugli obiettivi di UNaids, il programma dell’ONU per la lotta contro l’Aids, i famosi tre 95 ossia il 95% delle persone con HIV diagnosticate, il 95% delle persone con HIV diagnosticate poste in terapia, il 95% delle persone con HIV in terapia con carica virale non rilevabile. Con un po’ di acume qualcuno ha capito che questi obiettivi erano un po’ utopici senza un quarto 95, ossia il 95% delle persone con HIV con una buona qualità della vita correlata alla salute.

ECDC ci dice che come obiettivo complessivo siamo all’86%. Tenete presente che l’area controllata non è solo l’UE ma l’Europa secondo il concetto di OMS che, per ragioni che preferisco ignorare, comprende tutto il Continente europeo più l’Asia centrale.

In questo quadro geografico sono 10 i Paesi che hanno raggiunto il primo 95 (fra cui UK, Monaco, Svezia, Azerbaijan).
15 sono i Paese che sono li li, manca un 5% per raggiungere gli obiettivi (fra questi l’Italia).
21 i Paese ai quali manca più del 5%.

Nell’Europa occidentale (fra cui l’Italia per ragioni che ignoro) in media il 94% delle persone con HIV conoscono il loro stato sierologico.
Il dato scende all’88% in Europa centrale e all’80% nell’Europa orientale.

Le diagnosi tardive (LP), ossia persone che ricevono la diagnosi con un numero di CD4 <350, sono ancora un problema consistente nel territorio definito dall’OMS. La cosa che mi ha stupito è che i dati dell’ECDC mostrano percentuali importanti fra gli uomini eterosessuali che sfiorano il 60% dei casi di LP, le donne sono stimate intorno al 48% delle LP, le persone trans intorno al 40%. I maschi omosessuali superano il 40%.

Secondo 95 ossia il 95% degli HIV+ posti in terapia. Obiettivo relativamente più semplice del primo. Tuttavia 19 sono i Paesi che hanno raggiunto il target, 7 quelli a cui manca un 5% (fra questi l’Italia), 20 i Paesi a cui manca più del 5% per arrivare all’obiettivo fra cui la Lituania che si ferma al 52%. Nel primo gruppo ci sono praticamente tutti i Paesi dell’UE, mentre l’Italia è nel secondo insieme a diversi Paesi dell’Asia centrale che, suppongo, non siano nel G7 e abbiano disponibilità economiche non paragonabili alle nostre.

Secondo UNaids a livello globale il 77% delle persone con HIV è in terapia. Secondo ECDC in Europa lo sono il 71%.

Terzo 95 ossia HIV non rilevabile. Obiettivo raggiunto per 24 Paesi, l’Italia è fra quei 6 a cui manca un 5% in compagnia di diversi Stati dell’Europa meridionale inclusi Grecia e Spagna. 9 i Paesi a cui manca più del 5%, fra cui l’Armenia che si ferma al 69%.

Come percorso per arrivare ai tre 95 entro il 2030, l’obiettivo per il 2025 era l’86%. Obiettivo raggiunto per quest’anno da 14 Paesi. L’Italia, indovinate un po’, è fra i 3 Paesi a cui manca un 5% per raggiungere il target.

Per dare strumenti di valutazione del quarto target, UNaids ha dato alcuni spunti per esempio che meno del 10% delle persone con HIV dichiari di aver subito discriminazioni.
Secondo ECDC il 30% delle persone con HIV non l’ha detto in famiglia, il 19% non l’ha detto agli amici, il 22% non l’ha detto ai partner abituali. Sempre secondo i dati di ECDC, oltre un quarto del campione evita i servizi sanitari perché teme di essere trattato diversamente, del resto il 54% del campione ha subito un atteggiamento discriminatorio in ambito sanitario, il 23% nell’anno.

Tutto ciò ci dice che la paura di essere discriminati è ancora molto alta nelle nostre zone.

Restando in ambito sanitario, ECDC ha ideato uno studio teso a misurare la portata di questo atteggiamento discriminatorio. I risultati sono imbarazzanti:

il 39% di chi lavora in sanità non sa cosa sia U=U, il 44% non è a conoscenza della PEP, il  59% ha un’idea vaga della PrEP.

Alla domanda “la maggioranza delle persone con HIV ha avuto molti partner sessuali” il 12% degli operatori sanitari si è detta d’accordo, il 25% non sa.

Alla domanda “le persone contraggono l’HIV perché adottano comportamenti irresponsabili” il 22% si detto d’accordo e il 25% non sa. E ancora:

il 18% degli operatori sanitari ha somministrato un trattamento sanitario più scadente alle persone con HIV; il 19% ha rivelato lo stato sierologico ad altri senza il consenso del paziente, il 22% si dice riluttante a prendersi cura delle persone con HIV e il 32% ha detto o ha avuto comportamenti stigmatizzanti.

Il risultato di questo bel quadretto è che sono quasi nessuno degli obiettivi UNaids sarà raggiunto in Europa.

Vi rimando alla tabella nella foto per le specifiche.

Il relatore di ECDC nelle conclusioni ci dice che non è tutto così tragico:

  • Diversi Paesi hanno fatto grandi passi in avanti in molte delle aree dei target;
  • L’Europa Occidentale ha raggiunto molti obiettivi o è vicina a farlo;
  • Vanno riconosciute le innovazioni messe in campo, i servizi con i quali si raggiungono le comunità più esposte, i test integrati e gli elevati standard nelle opzioni di trattamento;
  • Tuttavia si deve anche riconoscere l’iniquità dilagante nella fornitura di questi stessi servizi in tutta la regione europea.

In chiusura accenno alla sessione “HIV Prevention: Current modalities and Future Horizons” che ha visto la presenza di ben 3 relazioni italiane su 5, tutte di sperimentazioni avanzate sulla PrEP.

Due di queste hanno descritto i dati preliminari degli studi pilota sulla PrEP LAI con Cabotegravir. Quella che in Emilia-Romagna non stato possibile fare perché i medici si sono messi di traverso con il pretesto che non si sa ancora il prezzo del farmaco… e il BLQ Checkpoint ha dovuto rispedire a Roma le fiale di PrEP facendo quella che non esito a chiamare una figura di merda con l’Istituto Spallanzani. Meglio che la chiuda qua.

Due parole invece vorrei spenderle sulla presentazione di Lella Cosmaro di LILA Milano sulla Tele PrEP, ossia l’utilizzo del un programma online per l’erogazione di servizi PrEP a distanza.

Come è facile immaginare il razionale del programma affonda le radici sulla difficoltà di accesso alla PrEP in Italia. Partito nel 2023, il programma è ancora operativo e lo sarà almeno fino a fine 2026.

Il programma è gestito da operatori della community e da infettivologi, così che le persone possono ricevere sia un counselling che un supporto medico. Un database registra i dati demografici e di comportamento, monitora le attività di Teleprep e invia promemoria per i follow up. Le persone che vivono vicino ad ambulatori PrEP vengono indirizzate li per beneficiare del farmaco rimborsato dal SSN.

434 sono le persone che hanno contattato TelePrEP fra febbraio 2023 e aprile 2025 per informazioni preliminari; 93 sono state indirizzate a servizi PrEP vicino a casa mentre 154 hanno scelto di non procedere oltre dopo il primo contatto.

187 sono stati arruolati nel progetto, 72 sono ancora seguiti direttamente. Ad oggi non ci sono stati fallimenti terapeutici.

Al momento è l’unico progetto del genere in Italia, forse potrebbe essere interessante adattarlo alla nostra situazione ma direi più a livello di centri clinici regionali che solo per la città di Bologna.

Sandro Mattioli
Plus aps

La 20esima Conferenza Europea AIDS è iniziata sotto il segno dei problemi tecnici. La struttura che ci ospita, Il Palais des Congrès a Parigi, si pensava che fosse adeguata e abituata a un flusso consistente di persone. In realtà abbiamo visto una inaugurazione quasi completamente senza slide e oggi, primo giorno effettivo di congresso, permane la difficoltà. Stamattina il primo relatore ha dovuto concludere la presentazione a memoria perché non c’è stato modo di trasmettere le ultime due slide, fra cui le conclusioni.

Ma, al di là degli aspetti tecnologici che sono in sé fragili, anche i locali sono palesemente inadeguati ad accogliere tutti i partecipanti. E così ci ammucchiamo davanti ai pochi distributori di acqua, ai pochi bar, ecc. Senza contare che Parigi, per quanto sempre affascinante, non è certo l’ideale dal punto di vista economico. Molti attivisti hanno trovato posto per dormire a 1 ora di metro per non vendere un rene.

Ad ogni modo siamo qui, EACS è sempre un’esperienza interessante e, dopo tutto, Parigi val bene una messa come disse Enrico di Navarra rovinandosi la reputazione.

Anche EACS si è adeguata all’idea di non stampare i poster per gli abstract e a esporre monitor dove i partecipanti possono cercare quello che trovano interessante. Il risultato visibile è che ben pochi lo fanno e buona parte degli studi vengono ignorati, mentre nelle altre conferenze che utilizzano ancora le stampe (magari preferendo materiali riciclati), spesso le persone passeggiano fra le file di poster e gli studi vengono visti. Pazienza. Sicuramente ho incrociato molti ricercatori, soprattutto giovani, che si sono fatti i selfie davanti al monitor con il loro studio… e io ho fatto altrettanto anche se non sono giovane, tié. Questo sono io davanti al nostro eP439.

In generale vedo che aleggia uno spettro non buono su tutti i partecipanti alla conferenza: mancanza di fondi.

Gli istituti di ricerca si lamentano del crollo dei fondi federali USA, le associazioni i soldi non li hanno mai avuti per cui si lamentano da sempre, tuttavia mai come oggi siamo a rischio di sparire. Nel UK, per esempio, oltre 50 associazioni hanno chiuso i battenti e devo dire che anche in Italia la situazione non è buona.

Mi chiedo che senso abbia, da parte delle associazioni, partecipare al CTS se poi da Governo non arriva mai il becco di un quattrino e rischiamo di chiudere?

L’inaugurazione si è dipanata fra discorsi di benvenuto e di circostanza. Alla fine della fiera la parte più interessante è stata la sorpresa finale ossia lo spettacolo offerto da 3 meravigliose drag queen che hanno riempito il palcoscenico con energia e voglia di fare, per chiudere con un breve ma efficace discorso sull’esclusione di alcune fasce di popolazione dalla prevenzione di HIV.
Quindi passiamo direttamente alle successive plenarie. La prima “Are we prepared for pandemics?” è già tutto un programma. Il relatore, dott. Yazdanpanah direttore dell’agenzia nazionale delle ricerche per le malattie infettive emergenti, si chiede se cinque anni dopo la pandemia di COVID-19 e l’emergere dell’Mpox, abbiamo imparato qualcosa su come prepararci alle pandemie e se siamo pronti per la prossima? Il ragionamento prende le mosse da un’analisi della diffusione del virus West Nile che si sta rapidamente diffondendo nell’Europa meridionale mentre nel 2010 era pressoché assente (vedi foto). Quello che si vede è uno studio del ECDC. Secondo l’OMS sappiamo che circa 260 virus provenienti da 25 famiglie di virus sono in grado di contagiare gli esseri umani, ma si ritiene che oltre 1,6 milioni di specie virali ancora da scoprire provenienti da queste famiglie già siano presenti, come ospiti, in mammiferi e uccelli.
Il panorama relativo ai rischi delle malattie infettive è cambiato negli ultimi vent’anni. Il cambiamento climatico, i cambiamenti demografici (urbanizzazione, crescita della popolazione, cambiamento dell’uso del suolo, migrazione, invecchiamento, variazione nei tassi di natalità) e i cambiamenti tecnologici a partire dai viaggi e dal commercio sempre più rapidi e economici che sono in grado di diffondere globalmente gli agenti patogeni, sicuramente influenzano tale cambiamento. Quali sono le nuove sfide che per le quali ci dobbiamo prepare? La prima, che a tutti è venuta in mente del resto, è la drastica riduzione dei finanziamenti del Governo degli USA ma anche i tagli, più moderati, da parte dei paese europei.
Possiamo aggiungere le disuguaglianze sanitarie persistenti tra il Nord e il Sud del Mondo, la perdita di fiducia nel sistema multilaterale (sostituito da America First), così come l’atteggiamento anti-scientifico e il revisionismo scientifico. Il relatore si sofferma su quest’ultimo punto sottolineando come il silenzio istituzionale sia una pessima idea che ha portato a ignoranza sostenuta da dinamiche tossiche politiche e dai social-media. E’ necessario prendere più seriamente la comunicazione scientifica riconoscendo l’importanza di coinvolgere e imparare da educatori qualificati e anche dai leader delle comunità. Tutti abbiamo pensato ai dubbi che in molti hanno sui vaccini, sono privi di qualunque base scientifica ma si diffondono. Pertanto c’è un dovere da parte della comunità scientifica di sviluppare legami diversi, più stretti con la popolazione generale in modo meno paternalistico, bidirezionale su scienza, tecnologia e i loro prodotti, sottolineando certamente i benefici ma anche i loro limiti. Secondo il relatore sono cinque i pilastri fondamentali per lottare con successo contro le malattie infettive emergenti:

  1. Prevenzione: fermare un’epidemia prima che si verifichi
  2. Contenimento: eliminare la trasmissione della malattia da individui infetti a individui suscettibili dopo che è emersa una malattia
  3. Servizi sanitari: salvare la vita delle persone malate e garantire la continuità di altri servizi sanitari, compresi quelli per la salute mentale
  4. Equità: garantire che gli oneri economici e sociali siano condivisi tra la popolazione e che i gruppi o le persone vulnerabili siano protetti
  5. Innovazione e diffusione: sviluppare, produrre e distribuire nuove terapie e vaccini in modo equo e efficiente.

La successiva lecture tenuta dalla dott.ssa Monica Ghandi, UCSF, è sulla terapia antiretrovirale (ART) e ha iniziato parlandoci della storia di HIV e di come è entrato nel corpo umano. Ormai tutti, o molti, sappiamo che Il 5 giugno 1981, Il CDC di Atlanta (Centers for Disease Control and Prevention), pubblicò un articolo sul suo Morbidity and Mortality Weekly Report, dove venivano descritti 5 casi di un rara infezione polmonare, PCP, in giovani gay di Los Angeles altrimenti sani. Ma per tracciare le vere origini molti studi sono andati ad analizzare dove vediamo i retrovirus nei nostri “parenti più stetti”, i primati. La presenza di retrovirus è stata dimostrata in effetti in molti primati, SIV ( Virus di immunodeficienza delle scimmie) è in grado di infettare almeno 45 specie di primati. Dalle analisi condotte è emersa una parentela stretta fra HIV1 e il SIV degli scimpanzé e di quello dei gorilla, mentre HIV2 è parente del SIV del cercocebo.

Rispetto all’evento che ha permesso il salto di specie verso gli umani, la Ghandi individua una serie di motivi che vanno dalle popolazione che cacciavano i primati per procurarsi cibo e che hanno finito per incorporare diversi ceppi di SIV, fino alla colonizzazione che ha portato alla disgregazione sociale, alla crescita della popolazione nelle città (pensate che in Africa occidentale prima del 1910 nessuna città superava i 10.000 abitanti) e all’aumento della prostituzione. Rispetto al quando, HIV è stato rilevato in 1213 campioni di sangue raccolti e conservati in Zaire nel 1959. Ricostruiti gli alberi genealogici e calcolato il tasso di mutazione è emerso che HIV è entrato negli umani probabilmente fra il 1884 e il 1924.

Oggi abbiamo 40,8 milioni di persone con HIV, senza contare la Russia le cui comunicazioni di diagnosi sono considerate inattendibili; 31,6 milioni in ART;
1,3 milioni di nuove diagnosi l’anno scorso, invariate dal 2022;
630.000 morti l’anno scorso, dato invariato dal 2022;
44,1 milioni di morti dall’inizio dell’epidemia e 91,4 milioni di infezioni.
Solo i 77% è in ART, il 73% di questi ha viremia non rilevabile.
Stigma, aumento del sentimento anti-LGBTQ, perdita del finanziamento dagli USA, tutto gioca un ruolo.

Fatta eccezione per AZT (messo in uno scaffale come possibile farmaco contro il cancro e provato contro HIV), tutta la ricerca contro HIV è il racconto di una progettazione di farmaci razionale e mirata a fermare il ciclo vitale di HIV. La ART vanta numerose molecole ma possiamo tranquillamente dire di essere nell’era degli inibitori dell’integrasi: BIC e DTG (rispettivamente biktegravis e dolutegravir) che sono farmaci molto potenti.
La causa maggiore di fallimento è la stessa in tutto il mondo: aderenza terapeutica inadeguata, punto confermato dallo studio ACTG 5381. Forse anche per questo la ricerca si sta orientando sui long acting, ossia farmaci che bloccano la replicazione virale per un tempo ben superiore alle attuali 24 ore, 1 pillola al giorno… o magari perché il tasso di soppressione virale negli USA è del 67%, secondo il report 2025 del CDC di Atlanta, la media mondiale è al 73% (!) e sicuramente andrà peggio per quanto sono stupide le scelte sanitarie del Governo federale degli USA.

Già al CROI la Ghandi aveva accennato a un tema in relazione alle terapia long acting (LA). La terapia LA al momento è costituita da cabotegravir (CAB) e rilpivirina (RPV) iniettivi che hanno una durata di 2 mesi. E’ cosa nota che CAB è stato studiato non tanto per essere migliore di altri, quanto per durare più di altri nel fare il suo lavoro. Forse per questa ragiona non ha una barriera genetica altissima. Forse l’unione di CAB e LEN (lenacapavir) potrebbe aiutare ad alzare la barriera genetica, infatti LEN ha già dimostrato di essere utile in pazienti multiresistenti. In effetti la ricercatrice ha condotto un piccolo studio su 34 pazienti con una combinazione long acting di lenacapavir e cabotegravir con un buon risultato. Perché sembro così titubante? Perchè i due farmaci sono aziende concorrenti e non so quanto possa essere probabile una unione di intenti quando ci sono in ballo investimenti di milioni. Staremo a vedere. Nel mentre ci sono altri 2 studi con CAB e LEN LA autorizzati e approvati (A5431 palace e A5433 Lancet) che potrebbero aprire la strada a studi grandi.

Il futuro è molto interessante perché le terapie in pillole preparano un grande ritorno. Per esempio con formulazioni da una pillola una volta a settimana (Islatravir/lanacapavir – islatravir/ulonirvina.
Ma ci sono numerose molecole LA in studio, sia iniettabili che orali: MK8527 1 volta al mese, LEN modificato per durare un anno, CAB ULA modificato per durare 4 mesi, VH199 è un nuovo inibitore del capside, ecc. Anche la Ghandi chiude dicendo davanti a tutti che se non si salva la PEPFAR che il Presidente Trump ha bloccato, tutto ciò servirà a poco.

Sandro Mattioli
Plus aps